DIRITTI. Guantanamo, il diario della vergogna

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(da “La Repubblica, giovedì 12 gennaio 2006, pagina 18 – Esteri)

Guantanamo, Corano e catene ecco il diario della vergogna

Quattro anni fa i primi detenuti nel campo americano a Cuba

L´ex cappellano islamico del carcere, detenuto senza prove, ha raccontato la sua storia ed è diventato un simbolo

Abusi, violazioni delle procedure, insabbiamenti, denuncie: per Washington è ormai un caso imbarazzante

gli osservatori: Nessuno è stato mai ammesso, tranne la Cri che non può dare notizie

sotto accusa: In isolamento per 72 giorni, in catene e senza possibilità di difendersi

“infiltrato“: Fu accusato di essere uomo di Al Qaeda infiltrato tra i prigionieri

la conversione: Il capitano Yee scoprì l´Islam nella guerra del Golfo e lo divulgò come credo pacifico

JOSEPH LELYVELD
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Ogni volta che un prigioniero detenuto nella base navale di Guantánamo, a Cuba, viene condotto nelle stanze degli interrogatori, gli si fa indossare quel che le guardie chiamano sardonicamente «vestito e panciotto». Due anelli di ferro appesi con catene a una pesante cintura bloccano le caviglie, mentre un terzo anello stringe i polsi. Il capitano James Yee ha visto la tenuta innumerevoli volte, durante i dieci mesi passati in qualità di cappellano militare musulmano nelle gabbie del Campo Delta. L´esperienza cubana lo ha preparato a indossare lui stesso «vestito e panciotto» quando, nel settembre del 2003, venne arrestato con l´accusa di ammutinamento e spionaggio, passibile di pena di morte.
Alcuni investigatori che restarono anonimi fecero sapere alla stampa che al Qaeda era riuscita a infiltrarsi a Guantánamo, nella persona di un diplomato di West Point, un sinoamericano di terza generazione del New Jersey, che si era convertito all´islam nella moschea di Newark, tre mesi dopo aver terminato il corso di addestramento per ufficiali.
Yee non aveva mai considerato la religione come un fattore di grande importanza nella sua vita, né la sua conversione all´islam andava oltre la convinzione che si trattasse di un credo più confortevole.
Le cose cambiarono in Arabia Saudita, dove, durante la prima guerra del Golfo, prestò servizio come ufficiale di artiglieria, addetto a una batteria di missili Patriot, e frequentò un centro culturale islamico, dove altri soldati non musulmani vennero attratti dall´islam.
Due anni dopo lasciò l´esercito per proseguire i suoi studi sull´islam. Si immerse nella lingua araba, con l´intenzione di divenire un giorno un imam. Tre anni dopo veniva accettato all´Università Abu Noor di Damasco, dove studiò per quattro anni, prima di rientrare nell´esercito come cappellano militare musulmano.
Subito dopo gli attentati dell´11 settembre, il capitano Yee, in servizio a Fort Lewis, Washington, aveva organizzato una serie di incontri di «sensibilizzazione» diretti agli ufficiali e ai soldati, per mostrare come gli attacchi terroristici contro vittime innocenti fossero contrari alla lettera e allo spirito del Corano. Fu un successo e a nessuno venne in mente di far domande sul lungo soggiorno a Damasco. Le sue relazioni siriane cominciarono a pesare solo quando una nube di sospetti si già era levata su tutti i soldati musulmani in servizio a Guantánamo. Solo allora, il fatto all´apparenza straordinaria di aver cercato di effettuare telefonate verso la Siria – facilmente spiegabile, visto che sua moglie (siriana) e sua figlia erano tornate a casa loro, attendendo la fine del mandato del capitano – si aggiunse alla lista di sospetti messa insieme dal generale Geoffrey Miller, comandante della base, che dipingeva Yee, grottescamente, come il capo di una cellula di al Qaeda.
Sembra che a destare i sospetti dei superiori siano state le intercessioni del cappellano in favore dei prigionieri, quando assisteva ad azioni gratuitamente provocatorie da parte delle guardie: maneggiare senza riguardi il Corano durante le frequenti ispezioni alle celle, o far uscire i prigionieri in catene per portarli a un interrogatorio proprio all´ora della preghiera. Si incontrava anche regolarmente con i circa quaranta soldati musulmani della base, anche loro sotto la sua tutela spirituale. Alcuni parlavano di abusi commessi nel centro per gli interrogatori, dove erano impiegati come traduttori. Il cappellano cominciò a tenere un diario su quanto gli veniva riferito. Molti degli abusi erano inferti ai prigionieri in quanto musulmani: venivano avvolti in bandiere di Israele, o si faceva girare un cd con versi del Corano all´inizio di un interrogatorio, per sommergerli poi con musica rock ad altissimo volume. I prigionieri venivano tenuti incatenati in posizione fetale per ore e ore. Newsweek forse esagerava quando, l´anno scorso, parlava di copie del Corano gettate nella tazza del bagno; tuttavia, lo spregio del Corano, di cui era dotata ogni cella, era procedura usuale.
James Yee non poteva facilmente ignorare che gli stessi militari musulmani erano oggetto di ostilità e di sospetti. Ci mise un po´ a capire che anche lui era sotto tiro. Forse traeva una certa sicurezza dall´utilità del proprio lavoro, specialmente in occasione di visite di membri del Congresso e di giornalisti, quando spiegava in termini accomodanti che ogni cura era prestata al benessere spirituale dei detenuti.
Cominciò a notare la presenza di uomini in borghese intorno ai luoghi in cui teneva i suoi servizi religiosi, e si chiese se non fossero agenti dell´Fbi. Sentì dire che diversi soldati musulmani erano stati arrestati al loro ritorno negli Stati Uniti da Cuba. Il 10 settembre del 2003, appena atterrato a Jacksonville per una licenza, Yee venne arrestato dal Servizio Investigativo della Marina. Dopo cinque giorni di isolamento, gli venne mostrata una nota del generale Miller, che lo accusava di spionaggio: «Il cappellano Yee risulta colluso con noti simpatizzanti del terrorismo». Si diceva anche che nel suo alloggio a Guantánamo teneva nascosti documenti segreti, e un biglietto per Londra, un chiaro segno dell´intenzione di svignarsela.
Nulla di tutto questo risultò essere vero.
Prima che i giudici istruttori militari cominciassero a fare marcia indietro, il capitano Yee fu sottoposto al trattamento riservato ai correligionari musulmani di Campo Delta a Guantánamo. Fu incatenato, tenuto in isolamento, spogliato e perquisito in modi umilianti, e gli vennero fatte indossare maschere e cuffie per le orecchie.
Un mese dopo il suo arresto, l´accusa di spionaggio e altre gravi imputazioni vennero improvvisamente ritirate. Un avvocato della Marina dichiarò che il governo non aveva «risorse probatorie» per continuare l´azione giudiziaria; vi era bisogno di altro tempo, continuava, per compiere ricerche sul suo comportamento sospetto. Il capitano Yee si trovava ora a difendersi da accuse relativamente minori: l´aver maneggiato senza cura due documenti riservati (lui insiste che non ne ha mai visto nemmeno uno). Fu comunque tenuto in isolamento per settantadue giorni e incatenato ogniqualvolta veniva portato a un interrogatorio.
E´ chiaro che dietro questa vendetta si celava l´ossessione di qualcuno. Prove circostanziali puntano il dito contro il generale Miller, comandante del Campo Delta, poi noto come responsabile della prigione di Abu Ghraib in Iraq. Il generale condusse personalmente le audizioni tenutesi ad Arlington, in Virginia, sulle accuse di adulterio e pornografia. Non sorprende che la sua decisione fu contraria a Yee, il quale si appellò al Comando Meridionale dell´Esercito statunitense. Il generale James Hill, a capo del Comando, dichiarò invalida la decisione del suo collega generale – cosa quasi senza precedenti – per poi affermare, non si sa su che base, che il comportamento di Yee restava riprovevole. Il cappellano se la cavava, secondo il generale, solo perché aveva sofferto troppo – non certo per i mesi di detenzione in isolamento, ma per il trattamento subito dalla stampa.
Non c´è più stato nessun cappellano militare musulmano assegnato ai detenuti di Campo Delta, dall´epoca dell´arresto di Yee a oggi. Un portavoce della Forza Congiunta che dirige gli interrogatori a Guantánamo mi ha assicurato che un cappellano è sempre disponibile a richiesta e che le guardie, ha soggiunto, sono sensibili alle pratiche religiose dei detenuti. E la stessa litania che viene recitata dall´inizio del 2002, quando i primi prigionieri in catene vennero trasportati alla base. Da allora, mese dopo mese, anno dopo anno, nessun osservatore indipendente è stato ammesso nelle gabbie per vedere coi propri occhi, a eccezione di rappresentanti della Croce Rossa Internazionale, che possono accedere ai detenuti solo a condizione di non divulgare notizie.
Quest´anno è il quinto che molti passano a Campo Delta. La Corte Suprema degli Stati Uniti ha decretato che dopo tutto le corti federali hanno una qualche giurisdizione sui detenuti di Guantánamo.
Ma nessuna ingiunzione federale ha per ora cambiato la vita di un singolo detenuto. Non avevamo bisogno del capitano Yee per renderci conto che ormai Guantánamo è fonte di grande imbarazzo. Ciò che questo testimone suo malgrado ci ha mostrato, è che si tratta di un luogo di miseria, giorno dopo giorno, anno dopo anno.

(Traduzione di Pietro Corsi)

* Joseph Lelyveld è stato corrispondente e direttore esecutivo del New York Times ed è autore di Move Your Shadow: South Africa, Black and White (Times Books, 1985) e Omaha Blues: A Memory Loop (Farrar, Straus & Giroux, 2005). Per concessione di The New York Review of Books-la Rivista dei Libri. Una versione più lunga di questo articolo comparirà prossimamente sulla Rivista dei Libri, in vendita nelle migliori librerie e per abbonamento: infolarivistadeilibri. it
www. larivistadeilibri. it

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Nel quarto anniversario diffuso un rapporto con nuove testimonianze di violenze e “consegne straordinarie“

Amnesty: “Chiudetelo subito“

Dentro ancora 500 detenuti, molti non conoscono neppure le accuse

RICCARDO STAGLIANO
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QUATTRO anni a Guantanamo, il pozzo senza fondo dell´orrore. Era l´11 gennaio 2002 quando il primo aereo militare atterrò nella baia cubana con il suo carico di oltre 200 sospetti terroristi. E c´è chi, tra loro, non è ancora uscito senza che mai nessuno gli spiegasse perché si trova lì. Jumah al-Dossari è uno di questi veterani. Quando il suo avvocato gli ha dato una penna per raccontare ha riempito una ventina di fogli fitti. Con lui, arrestato a Tora Bora durante le grandi retate post-11 settembre, i militari Usa si erano portati avanti con il lavoro già in aereo. «Quando mi lamentai per le catene cominciarono a prendermi a calci nello stomaco sin quando non cominciai a vomitare sangue». Base di Kandahar, tappa intermedia. La cella è una tenda nel gelo dell´inverno afgano, un secchio come toilette. «Mi sbatterono la testa sul pavimento tante volte che svenni», ricorda. «Sembrava un idrante di sangue» ribadisce un testimone, poi rilasciato. Di quel trattamento porta un´orrenda cicatrice sul naso. Ed è il meno. «Aveva la faccia viola per le botte», conferma in un libro l´ex soldato Erik Saar. E a Guantanamo successe tutto il resto: l´isolamento per 18 mesi, fuori dalla cella un´ora al giorno scarsa, una bottiglia d´acqua al mese sino a un tragico sciopero della fame che per alcuni ancora continua. Gli fecero fare anche il numero del fachiro: «In un hangar mi costrinsero a camminare sul filo spinato». In una stanza due soldati facevano sesso su una scrivania: uno, i pantaloni ancora abbassati, gli disse che poteva accomodarsi con la «sua fidanzata» se collaborava.
Le testimonianze fatte circolare da Amnesty International per segnare l´anniversario con una raccolta di firme per la chiusura del carcere riguardano anche altri detenuti. Come il sudanese giornalista di Al Jazeera Sami al Hajj, arrestato dalla polizia pachistana mentre faceva il suo mestiere. «Volevano che confessassi che la mia tv aveva rapporti con Al Qaeda». Lui negava e loro gli strappavano la barba, pelo per pelo. Reduce da un cancro alla gola nel ‘98 avrebbe dovuto prendere dei medicinali per il resto della vita. Ma alla clinica di “Gitmo“ facevano finta di niente. Mentre il prigioniero yemenita Abdulsalam al Hela fu una vittima della “consegna straordinaria“ ben prima che diventasse una pratica famosa. «La Cia si mise d´accordo con i servizi segreti egiziani», sostiene. Impresario edile, fu attirato in Egitto per un incontro d´affari. E sparì nelle “prigioni segrete“ di Azerbaijan e Afghanistan prima di arrivare a destinazione. Interrogato nudo per ore, appeso al soffitto, musica rock a tutto volume 24 ore al giorno. È la “cura Guantanamo“ e per 500 persone continua.

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