Globalizzazione. La guerra del gas. Articolo del CRS

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(dal Centro di Studi e Iniziative per la Riforma dello Stato)

Gas : il nuovo assalto all’oro blu

Dall`Ucraina all`Artico, dalla Danimarca al Canada, dalla Cina al Giappone, la guerra all`oro blu è il conflitto del XXI secolo. Si preparano nuovi assalti all’oro blu. E con essi anche nuovi conflitti

Il gas potrebbe diventare nel XXI secolo quello che il petrolio è stato negli ultimi decennio del secolo precedente : una risorsa inesauribile di conflitti e un’arma politica indubbia nelle mani dei grandi paesi produttori come la Russia e l’Iran. La crisi russo-ucraina – contrassegnata dalla fine delle forniture del gas russo a Kiev tra il 1 e il 3 gennaio 2006 – conferma la dimensione altamente strategica del settore dell’energia. Ma essa s’inscrive anche nel contesto più largo nel quale l’apertura dei mercati, la concorrenza crescente, l’emergere di produttore poco accomodanti con l’Occidente e l’esaurimento programmato delle riserve pone ormai il problema della sicurezza dell’approvvigionamento energetico.

Meno inquinante del carbone e del petrolio, il gas risponde ai limiti imposti dal protocollo di Kyoto sulla riduzione delle emissioni di carbonio e degli altri gas che provocano l’effetto serra. Il gas è anche più abbondante dell’oro nero: gli esperti stimano che le riserve potranno essere utilizzate per i prossimi settanta anni (rispetto ai quaranta del petrolio) al ritmo attuale della produzione. Riserve che sono probabilmente “sottovalutate” perché le compagnie privilegiano da tempo la ricerca del petrolio e non quella del gas.

Il gas ha insomma un grande avvenire. Il suo consumo dovrebbe crescere al ritmo annuale del 2,3 per cento fino al 2030 e raddoppiare per attestarsi a 4,900 miliardi di metri cubi. La sua progressione, si legge nel rapporto World Energy Outlook 2004, sarà più rapida del petrolio (1,6 per cento), del carbone (1,5 per cento) e del nuclerare (0,4 per cento). Ma per tenere questo ritmo dovrebbe essere stanziata la cifra record di 100 miliardi di dollari all’anno (di cui la metà nella ricerca delle fonti e nella produzione).

I produttori maggiori hanno capito le risorse del gas. Le compagnie petrolifere ExxonMobil, Shell, BP, Total, Chevron e l’Eni sono tra le multinazionali che investono somme enormi (ma sempre meno di quello che vorrebbero e potrebbero) nello sfruttamento dei grandi giacimenti. Sulla stessa linea ci sono le compagnie nazionali russe, iraniane, qatariane, algerine o libiche.

Solo qualche cifra. Se Chevron ha sborsato 14 miliardi di euro per acquisire Unocal, è solo per le riserve di gas possedute dalla compagnia californiana in Asia centrale. Shell ha investito 20 miliardi di dollari nelle isole di Sakhalin, nell’estremo oriente russo, dove ci sono giacimenti di petrolio e di gas. Numerose compagnie hanno rafforzato la catena del gas naturale liquido che gli permette di vendere questa caterva di gas ad un prezzo altissimo quando il mercato del gas langue. Il gas naturale liquido sarà la parte determinante del commercio del gas da oggi al 2030.

Ma il asservirà anche alla produzione dell’elettricità. L’AIE valuta che entro il 2030 il 35 per cento della produzione mondiale verrà dalle centrali funzionanti a gas (contro il 15 per cento nel 2002). Tutti i grandi gruppi produttori di elettricità, dai francesi dell’Edf ai tedeschi di E. ON-Ruhrgas e RWE, fino all’italiana Enel e la spagnola Endesa, rilanciano gli investimenti in questo settore.
La convenienza è presto spiegata. Le centrali a gas sono meno costose da costruire rispetto a quelle nucleari, ad esempio. Costituiscono anche una soluzione di transizione per la produzione di elettricità, la cui domanda è in continua crescita. Ma il gas riserva anche un altro vantaggio, quello decisivo: non suscita il rifiuto dell’opinione pubblica come il carbone o il nucleare. E può essere sostituito da altre risorse energetiche. Questo spiega anche la latitanza dei finanziamenti nella ricerca di nuovi giacimenti.

Ad eccezione degli Stati Uniti, dove i proprietari dei suoli sono anche proprietari delle risorse energetiche sotterranee, i grandi paesi produttori mantengono la proprietà delle risorse sotterranee, a cominciare dai paesi come la Russia e l’Iran dove il settore pubblico rimane preponderante nelle politiche energetiche. Gli idrocarburi appartengono allo Stato e vengono sfruttati dalle grandi compagnie nazionali che firmano contratti con le multinazionali dell’energia che beneficiano delle concessioni e dei contratti al termine dei quali alle compagnie straniere vengono concessi milioni di barili di petrolio – o migliaia di metri cubi di gas – per premiare i loro investimenti.

I conflitti si accendono non tanto sulla proprietà del sottosuolo e sulle riserve, ma sulla condivisione dei profitti come hanno dimostrato nelle ultime settimane le tensioni tra le compagnie petrolifere e due paesi latino-americani, come il Venezuela e la Bolivia. Il presidente venezuelano Hugo Chavez ha aumentato le imposte e le royalties versate per lo sfruttamento del petrolio dell’Orinoco. Evo Morales, presidente della Bolivia dal 18 dicembre 2005, ha promesso in campagnia elettorale una “nazionalizzazione degli idrocarburi”, o almeno una rinegoziazione dei contratti firmati con 26 compagnie che operano in un paese che è al secondo posto per riserve di gas in America Latina, dopo il Venezuela. Chavez e Morales alimentano una polemica con le multinazionali europee e americane colpevoli di non pagare a sufficienza le risorse che estraggono dai propri territori.

Ci sono anche dei paesi, soprattutto in Asia, che conoscono una forte crescita annuale della domanda da 25 anni a questa parte, in particolare per produrre elettricità : il brasile (5,8 per cento), la Cina (5,4 per cento), l’India e l’Africa (5 per cento) sono in testa seguiti dall’America Latina (4,1 per cento), l’Asia (3,8 per cento) e il Medio-Oriente (2,8 per cento). In totale, la domanda del mondo in via di sviluppo ariverà al 3,9 per cento all’anno, mentre la domanda dei paesi ricchi dell’Ocse aumenterà solo dell’1,6 per cento. E’ nata la diplomazia dell’oro blu che impone al Brasile di trattare costantemente con Venezuela e Bolivia, mentre il Giappone e la Corea del Sud sono in trattativa con i russi e gli iraniani.

Prima della crisi russo-ucraina (già affiorata nel 1993), il mondo non ancora conosciuto le grandi battaglie sul gas. Il gas è ormai oggetto di un grande conflitto geo-politico. I veri punti di frizione geopolitica sono quelli sui percorsi dei gasdotti. Quando Mosca ha deciso la costruzione di un gasdotto che dovrebbe collegare la Russia alla Germania, passando per il mar Baltico, il progetto ha sollevato l’indignazione dei paesi baltici e della Polonia, privati dei diritti sul transito del gas. Ad Est della Russia, Cina e Giappone si affrontano per diventare i principali beneficiari dei nuovi “pipeline” che provengono dalla Siberia. Più modestamente, il tracciato del gasdotto tra Venezuela e Argentina, via Brasile, suscita la collera della Bolivia che è stata aggirata.

La guerra del gas si è spostata infine sulle rotte marittime e le zone dove si potrebbe scoprire nuovi giacimenti d’idrocarburi. E così l’Artico diventa l’oggetto delle tensioni tra gli Stati Uniti e il Canada, la Norvegia e la Russia (per il mare di Barens), la Danimarca il Canada (per la Groenlandia). L’agenzia americana US Geological Survey pensa che resta ancora un quarto delle risorse energetiche da scoprire nelle zone artiche del pianeta. Un nuovo assalto all’oro blu si prepara. E con esso anche nuovi conflitti.

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