INFORMAZIONE. Bufera al New York Times per lo scoop rinviato su Bush

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(da “la Repubblica”, lunedì 2 gennaio 2006, pagina 1-17)

Il garante dei lettori accusa: il silenzio ha influenzato il voto?

Scoop rinviato su Bush bufera al New York Times

di VITTORIO ZUCCONI

WASHINGTON. Comincia con un brindisi all´aceto, il nuovo anno del più importante e influente giornale d´America e del mondo, il New York Times . Ma questa volta l´acidità non viene da un articolo pubblicato, viene da qualcosa che il giornale decise di non pubblicare durante la campagna elettorale del 2004
lA storia è quella delle intercettazioni elettroniche ordinate dalla Casa Bianca e condotte senza l´obbligatorio mandato dei giudici, esposta finalmente, e tardivamente, lo scorso mese di dicembre dallo stesso quotidiano. E non è uno dei tanti, rancorosi e spesso soltanto invidiosi critici esterni della «Signora in Grigio», come è stata soprannominata la corazzata del giornalismo americano, ad alzare il ditino per attaccare il New York Times, ma una voce dall´interno. La bottiglia di aceto è stata stappata dal public editor, Byron Calame , la persona che lo stesso direttore del quotidiano, Bill Keller , scelse nel 2003 per riportare ordine e credibilità in una redazione scossa da errori, falsi editoriali, bufale passate dalla Casa Bianca e scandali.
Il lungo articolo, un po´ commento e un po´ reportage scritto da questo inviato all´interno del giornale, da questo anziano giornalista che deve rappresentare gli interessi e le proteste dei lettori all´intero del Times, risolleva una questione fondamentale, tanto professionale quanto morale, per i media: se, e quando, e come, pubblicare scoop di estrema delicatezza per la sicurezza nazionale e per il governo. La storia, che tiene banco a Washington e a New York ormai da settimane e ha spinto la Casa Bianca nel panico prima ad ammettere la veridicità della notizia e poi ad aprire un´inchiesta giudiziaria speciale per stanare colui, o coloro, che funzionarono da «gole profonde», come se quelle e non la violazione della legge fossero il caso, è quella degli ordini di intercettazione elettronica – dunque e-mail telefonate, comunicazioni via computer, bonifici bancari – dati da Bush alla Agenzia per la Sicurezza Nazionale, la Nsa dai grandi e onnipresenti orecchi in terra e in cielo.
Per ammissione stessa del direttore del New York Times, la prima rivelazione di questa, o queste, «gole profonde» risale ad almeno un anno fa, addirittura a 14 mesi or sono, quindi all´ottobre del 2004, in piena campagna elettorale fra George Bush e John Kerry . Il fatto che il Presidente avesse aggirato la legge sulle intercettazioni del 1979 e lo spirito della Costituzione che ha giurato di difendere, avrebbe potuto creare seri problemi a Bush. Se il direttore del New York Times decise di non pubblicarla, di attendere che l´autore dell´inchiesta, James Risen, ne facesse con comodo un libro, «State of War» (Stato di guerra) e di farla uscire soltanto il mese scorso, fu, insinua la denuncia del «rappresentante dei lettori», perché la Casa Bianca fece enormi pressioni dirette sul giornale affinché tacesse, come al solito nel nome della «guerra al terrore» e della «sicurezza del popolo americano». Fu «un silenzio fragoroso» scrive, una decisione «spaventosamente inadeguata», formula eufemistica, ma chiarissima di condanna, raddoppiata dal fatto che sia il direttore Keller che l´editore Ochs Sulzberger, hanno rifiutato di rispondere ai perché dell´inquistore interno, da loro stessi nominato.
Comportamenti che vengono quotidianamente rimproverati proprio a Bush e alla sua leggendaria evasività.
Per un giornale che è considerato il faro dell´America, e della New York liberal, questa accondiscendenza del direttore davanti alle pressioni di Bush, in un momento politico cruciale per lui, in piena campagna elettorale, appare come un tradimento e una resa. Keller, il direttore in carica che fu chiamato a sostituire il predecessore, Howell Raines, travolto dal caso del giovanissimo reporter afroamericano Jason Blair autore di dozzine di reportages fittizi, tace. Ma ha il coraggio di pubblicare il commento di chi lo accusa sul suo stesso giornale.
Il calice di aceto, che il grande giornale ha dovuto bere, sarebbe più tollerabile se il New York Times non avesse dovuto subire, dopo il caso del reporter falsario, il giallo bizzarro e umiliante di Judith Miller, la giornalista che si fece megafono per le fanfaronate della Casa Bianca e del gruppo di propagandisti raccolti attorno a Cheney sull´inesistente arsenale di Saddam Hussein e che diede a quelle sensazionali fandonie l´autorevolezza e l´imprimatur del principale quotidiano del mondo. In questo clima sempre più acre che la guerra in Iraq, l´ideologia prepotente della nuova destra e lo scontro istituzionale aperto proprio dalle intercettazioni fra Parlamento e Governo, il tribuno del popolo dei lettori accusa in buona sostanza la «Signora in Grigio» di essere caduta di nuovo in una trappola tesa dai Bushisti.
Eppure, i vecchi del New York Times ricordano ancora bene il disastro del 1961, quando il capo dell´ufficio di Washington, James Reston, e l´editore, Orvyl Dreyfoos, seppero in anticipo dell´operazione Cia nella Baia dei Porci ma tacquero la notizia, su pressioni dirette della presidenza Kennedy, sempre per il ricatto dell´«interesse nazionale». Una decisione che permise lo sbarco operettistico, il disastro, l´umiliazione degli Stati Uniti e la beatificazione di Fidel Castro, e che James Reston rimpianse per il resto della sua vita, giurando a se stesso di non tacere mai più notizie che avesse avuto.
Quattro decenni più tardi, lo stesso New York Times si trova ora con la bocca amara per avere fatto l´esatto contrario: avere dato scoop falsi sulle armi di Saddam e avere taciuto scoop veri sulle intercettazioni illegali.
Dunque, secondo l´antica dannazione, maledetto per quello ha fatto e maledetto per quello che non ha fatto.

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