LAVORO PRECARIO. I risultati di una ricerca dell´Anl

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(La Repubblica, GIOVEDÌ, 23 FEBBRAIO 2006,
Pagina 41 – Economia)

I risultati di una ricerca dell´Anl: le imprese cercano di “fidelizzare“ i dipendenti

Aziende, flessibilità al capolinea torna di moda il lavoro stabile

Solo il 9,4% dei contratti segue la legge Biagi

Il 73,2% dei rapporti lavorativi è di tipo standard. “Gli imprenditori vogliono collaboratori motivati, non di passaggio“

ROBERTO MANIA
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ROMA – Le imprese tornano all´antico, al contratto di lavoro a tempo indeterminato. La domanda di flessibilità sta scemando e gli stessi contratti atipici rischiano di trasformarsi in fattori di rigidità. È dunque la fine di una stagione quella che certifica l´Associazione nuovi lavori, presieduta da Giuseppe De Rita, con la ricerca «Il “nuovo“ nel mercato del lavoro: presente e futuro» che sarà discussa oggi al Cnel.
«La flessibilità e il lavoro non standard – si legge nel rapporto – sembrano aver esaurito il loro potenziale innovativo». Oggi le imprese cercano, di nuovo, di fidelizzare i propri dipendenti. «Ai datori di lavoro – spiega Raffaele Morese, segretario dell´associazione, già sindacalista della Cisl e sottosegretario al Lavoro nei governi del centrosinistra – non interessano più le persone “di passaggio“. Hanno bisogno di collaboratori motivati, non più precari, dei quali potersi fidare». Infatti il 23 per cento degli intervistati ammette di preferire dipendenti stabili. «Tanto è vero che – chiosano i ricercatori – le vecchie forme di flessibilità oraria, dallo straordinario al conto ore individuale, continuano a richiamare fortemente il loro interesse».
Nelle aziende industriali e in quelle del terziario (dal commercio ai trasporti, dalle attività immobiliari ai servizi all´impresa) il 73,2 per cento dei contratti è di tipo standard, cioè a tempo indeterminato, full time o part time. Sono contratti non standard il 26,8 per cento, ma quelli direttamente riconducibili alle tipologie introdotte nel 2003 con la legge Biagi (dal contratto di inserimento al job on call, dal lavoro a progetto al job sharing) sono solo il 9,4 per cento. Il restante 17,6 per cento appartiene ai contratti atipici di prima generazione, quelli del “pacchetto Treu“: collaborazione occasionale, apprendistato, partita Iva. «A conferma – dice Morese – che la legge Biagi è una legge fantasma, una legge che nei fatti non esiste». E piace poco anche alle imprese, se solo un terzo dichiara di conoscerla e ben il 65 per cento di questo ne da un giudizio di sostanziale mediocrità.
Da una parte, quindi, la flessibilità sembra aver esaurito la sua spinta propulsiva, dall´altra ha finito per creare nelle diverse imprese uno zoccolo duro di lavoratori atipici destinati a restare intrappolati nella precarietà. E solo uno su quattro – stando all´indagine condotta su un campione di 1000 imprese – ha qualche chance di passare ad un contratto standard. «Il che – osservano i ricercatori che hanno curato il rapporto – denota la creazione nelle imprese di un énclave di flessibilità piuttosto “rigida“». E ancora: «La flessibilità non è più una leva di gestione straordinaria dell´impresa, ma è entrata in una fase di normalizzazione in cui si autoriproduce, senza essere una leva di sviluppo e di innovazione né per le aziende, né per i lavoratori: produce, come ha prodotto, effetti sul piano quantitativo, ma non su quelli della produttività e della qualità del lavoro».
Ma la svolta nella domanda di flessibilità si ricava anche dai motivi che porteranno gli imprenditori a ricorrere ancora, in futuro, ai contratti atipici: non più la riduzione dei costi (solo il 4 per cento dice che lo farà con questo specifico obiettivo), ma per fronteggiare i picchi produttivi (il 32 per cento) o per ragioni organizzative (il 32 per cento).

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