TORTURA. Quei marines tristi con l´orrore ancora negli occhi

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(La Repubblica, DOMENICA, 26 FEBBRAIO 2006, Pagina 29 – Varie)

Quei marines tristi con l´orrore ancora negli occhi

COLUM MCCANN

Una sensazione di terrore può pervadere persino i luoghi più anonimi. Sono le sei del mattino all´aeroporto di Shannon, nella regione occidentale dell´Irlanda, quel momento poco prima dell´alba in cui l´oscurità sembra assoluta. Le ultime stelle appaiono come segni di artigli sul cielo. Qualche aereo rulla sulla pista. All´interno i locali del duty-free sono gremiti di soldati americani che tornano a casa dalla guerra in Iraq. Dovrebbero essere felici. Sgravati. Sollevati. Stanno ritornando a casa. Il loro periodo di servizio è concluso. Sono sopravvissuti. Ci si potrebbe aspettare che facciano gli sbruffoni e gli arroganti, che si vantino al bar e gettino qualche dinaro alla giovane cameriera irlandese, oppure che vaghino tra i corridoi degli alcolici da poco prezzo, o se ne stiano appartati accanto al banco dei profumi. Dopo tutto, persino una storia di guerra può essere anche una storia d´amore. Invece no. Nessun bacio in estasi, nessun tracannare vodka nel corridoio 4, nessun racconto di guerra, nessun istrionismo. Anzi, i soldati (e ogni giorno dall´aeroporto Shannon ne passano almeno 900) hanno un´aria sfiduciata, nostalgica, melanconica. Si siedono e tengono strette in mano le loro birre. Si aggirano senza meta tra i corridoi, guardando fisso le torte natalizie di frutta secca ormai scadute, le macchine fotografiche digitali, la sfilza di vestiti per neonati. Parlano a bassa voce, educatamente. Sembrano storditi.
Può anche darsi che stiano obbedendo al severo ordine dell´esercito americano di comportarsi bene durante quello che in modo eufemistico essi chiamano «uno scalo per rifornirsi di carburante». Oppure può anche essere che se ne stanno tranquilli allo scopo di non attirare l´attenzione sul fatto che – con grande sdegno del popolo irlandese – stanno conducendo alcuni prigionieri a Guantanamo. O infine può darsi che, di ritorno da una guerra, abbiano assistito a scene di tortura. E non solo la tortura di altre persone, ma anche loro, interiore. ***Le nuove fotografie venute a galla la settimana scorsa, che suggeriscono un ricorso diffuso e sistematico a brutali metodi di interrogatorio in Iraq e a Guantanamo, non avrebbero dovuto costituire una grossa sorpresa. Si tratta di qualcosa di osceno, ma non certo di un segreto. Tutti sanno che questi metodi sono utilizzati, fin su, agli alti vertici. Il paradosso è che poche persone ne parlano nel panorama politico americano. La tortura, concepita per farci parlare, fa tacere chi la pratica. In teoria, la democrazia è il sistema con le maggiori probabilità di controllarsi. Si presume che abbracci il libero pensiero, un linguaggio trasparente, un atteggiamento aperto, e che sia stata addirittura progettata per questo. Essa dovrebbe, nella sua essenza più pura, essere in grado di reggere e portare il proprio peso, e sicuramente quello delle proprie parole. La parola “tortura“, però, nelle nostri menti evoca l´immagine di tante e tali cose – elettrodi, cappucci, tavoli di metallo, pungoli per il bestiame, manici di scopa, sigarette accese – che gli orrori indotti dalla sua sola evocazione sono già sufficienti a farci crollare. Finiamo così col raccontare menzogne, e non soltanto nella stanza delle torture, ma anche sulla democrazia. Così stanno le cose, pure e semplici: il Paese che afferma di contenere il meglio dell´umanità tutta ricorre al peggiore di tutti i mezzi inventati dall´uomo per umiliare non soltanto i propri nemici, ma in primo luogo se stesso. La maggior parte delle idee – persino quelle valide – diventano menzogne quando le si abbraccia troppo strette. Gli Stati Uniti (il Paese nel quale vivo, dove sono marito, padre, patriota nato all´estero, ammiratore e uno che protesta) sono diventati un Paese nel quale il linguaggio è stato privato di ogni valore dall´esagerazione. Poche persone analizzano veramente che cosa può ancora significare la parola “libertà“ e forse ancora meno persone analizzano veramente cosa può ancora significare la parola “democrazia“, anche se per entrambe sarebbero disposte a combattere.Non è che siano stupide – in effetti il modo che hanno sia i media europei sia quelli americani di trattare il popolo americano come fosse un bambino piccolo è uno dei trend più pericolosi degli ultimi tempi – più che altro è che il popolo americano è stato confuso di proposito dalla costante svalutazione della lingua. Pare quasi di sentire il rumore bianco alla Casa Bianca, sulle onde radio, nei corridori del potere. “Freedom“, “freedom“, “freedom“. “Democracy“, “democracy“, “democracy“. Sempre più forte, più forte, più forte. “FREEDOM“! “DEMOCRACY“! E alla fine le orecchie sanguinano. Prima si spezza il corpo, poi si piega la mente. Come metafora funziona anche per il sistema politico. Si attacca il corpo politico, ed esso non è più capace di riconoscere se stesso. Le parole di coloro che sono favorevoli ai metodi di tortura – ma loro li hanno usati con noi, tutti sanno che è così, se lo meritano, non sono in grado di comprendere altro, il fine giustifica i mezzi – sono chiacchiericcio da asilo infantile. Una democrazia la si valuta, prima di ogni altra cosa, più di ogni altra cosa, da quello che essa fa per il suo stesso popolo e in seguito da quello che essa fa agli altri. La tortura non è soltanto un mucchio di fotografie provenienti da Abu Ghraib o da Guantanamo – anche se sono raccapriccianti quanto basta da togliere il respiro. La tortura è anche un´immagine speculare. Un paese che utilizza una brutalità simile (anche quando la si chiama coercizione) è verosimile che nel lungo periodo patisca il senso di colpa del carnefice. Persino in una bolla politica così chiaramente poco empatica come la Casa Bianca di George Bush, sotto quelle costose camicie bianche, corre sicuramente un brivido di disgusto. La tortura dimostra altresì una spiccata mancanza di immaginazione. Bush, che non ha immaginazione alcuna, deve essere consapevole che le bastonate e i trattamenti con l´acqua ghiacciata e i manici di scopa spezzati alla fine non funzionano. L´esercito americano avrebbe catturato Osama bin Laden e Abu Musab al-Zarqawi da un bel pezzo, se la tortura fosse efficace. Il fatto è che, se si malmena qualcuno abbastanza a lungo, costui finirà col confessare qualsiasi cosa gli si vuole sentir dire. Si riesce quasi a sentire la lugubre eco proveniente dalle celle di Guantanamo, mentre i detenuti che fanno lo sciopero della fame sono alimentati a forza: “Freedom“. “Democracy“. “Freedom“. “Democracy“.Al di là di tutto, ricorrere alla tortura indica una mancanza di rispetto per se stessi. Ridursi al minimo comune denominatore significa diventare il minimo comune denominatore. La tortura alla fine si ritorce contro chi la pratica. Ma nonostante tutto, l´indecente uso della tortura in un sistema democratico non dovrebbe diventare un atto d´accusa della democrazia stessa: essa è un atto d´accusa contro quei militari (britannici, americani, iracheni e di altri paesi) che abusano del sistema. Sappiamo tutti che è sbagliato, ed ecco perché siamo scossi ogni qualvolta vediamo quelle fotografie. Ecco perché una gelida frecciata ci trapassa fino al midollo ogni qualvolta contempliamo un tale orrore. Ed ecco una delle ragioni per le quali quei soldati diretti a casa loro e in transito all´aeroporto di Shannon portano dentro di sé una simile afflizione. Può darsi che abbiano assistito a episodi di tortura con i loro stessi occhi, può darsi di no. Ma a modo loro tutti si portano dentro la tortura di essere stati in una guerra insensata. Ecco un´altra delle cose che provoca la tortura: ci fa tornare a casa sgomenti, avviliti, smarriti.© Colum McCann 2005L´autore è uno scrittore irlandese che vive a New York. L´ultimo romanzo si intitola “Dancer“

(Traduzione di Anna Bissanti)

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