Lavoratori immigrati / La campagna della Cgil E` tempo di cittadinanza

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Lavoratori immigrati / La campagna della Cgil
E` tempo di cittadinanza

di Valentina Petrini

“La condizione dei migranti, in Italia come in Europa, ha assunto un’importanza centrale. Governare il fenomeno è un banco di prova per la tenuta della democrazia”. Pietro Soldini, responsabile immigrazione della Cgil, spiega perché il sindacato ritenga decisivo assicurare diritti e integrazione agli stranieri che vivono e lavorano nel nostro paese. “I meccanismi di esclusione che oggi pesano sui migranti e lo sfruttamento sui luoghi di lavoro sono deviazioni da combattere”, prosegue.

Tre milioni sono oggi gli immigrati residenti in Italia, provenienti da 191 paesi diversi. Ad essi si aggiunge un’area vasta di irregolari che vive nel sommerso, in condizioni quasi sempre al limite, lavorando in nero.

Al recente Congresso della Cgil Guglielmo Epifani ha invocato, tra le riforme urgenti della prossima legislatura, la modifica della legge per la concessione della cittadinanza che favorisca l’introduzione dello ius soli al posto dello ius sanguinis. “Gli immigrati sono l’8% della forza lavoro italiana – spiega Soldini –, ma ci sono settori dove la percentuale è ben superiore». Il 12% nel manifatturiero, il 15% in agricoltura, il 20% nell’edilizia, toccando punte dell’80% nel lavoro domestico. Non si vede perché, quindi, si debba sopportare un’attesa interminabile – dieci anni – per ottenere l’ingresso a pieno titolo – quando viene concesso – nella comunità nazionale.

Una delle tesi del congresso Cgil (la sesta) era interamente dedicata al fenomeno immigrazione, e a come, secondo Corso d’Italia, è necessario governare questa realtà. Si parte da una bocciatura netta della legge Bossi/Fini (189/2002), “che ha un’impostazione securitaria e proibizionista, uomini e donne senza diritti, riconosciuti solo in quanto utili al mercato – spiega il responsabile immigrazione –, sottoposti a procedure e leggi speciali che sanciscono l’inferiorità giuridica e sociale degli immigrati”.

La ratifica della Convenzione Onu sui diritti dei lavoratori migranti del 1990 è ai primi posti degli interventi urgenti: solo 34 paesi l’hanno riconosciuta, “ma non ancora l’Italia”, denuncia Soldini. “L’Europa deve promuovere un modello di governo comunitario dell’immigrazione. Nel Trattato costituzionale mi sembra si possa definire riduttivo il concetto di cittadinanza europea. Sono esclusi infatti dall’accesso alla cittadinanza circa 18 milioni di immigrati non comunitari ma residenti. Noi proponiamo che il provvedimento di naturalizzazione riguardi tutti coloro che vivono e lavorano in uno qualsiasi dei paesi dell’Unione”.

Occorre poi una legge sul diritto d’asilo e, ancora, estendere il diritto di voto. “Siamo gli unici, in Italia, a non avere una legge organica in materia d’asilo; e per quanto riguarda il voto – prosegue il sindacalista– non capisco perché serve una modifica costituzionale più complessa di quella che è stata necessaria per varare la devolution”.

Favorire l’espansione dei diritti non è un regalo per le comunità di lavoratori stranieri ma, fra le altre cose, una conseguenza ovvia del fatto che ogni anno il lavoro migrante versa un milione di euro nelle casse dello Stato. Eppure, nonostante il mercato abbia evidenziato la necessità di molti più ingressi rispetto a quelli previsti nei decreti flussi, vige ancora un pessimo sistema di quote. Le lunghe code davanti agli uffici postali, la scorsa settimana, hanno mostrato come la domanda sia ben superiore rispetto all’offerta: 170mila gli ingressi per il decreto flussi 2006, 486mila le domande presentate che dimostrano, inoltre, come gli esclusi costituiscano il mondo sommerso del lavoro nero.

Anche la Confindustria boccia la politica delle quote. Ma mentre Ettore La Carruba, responsabile immigrazione dei giovani industriali, su Metropoli, il settimanale di Repubblica dedicato all’Italia multietnica, suggerisce il modello inglese, quello cioè dei “migranti selezionati, per privilegiare i più qualificati”, la Cgil chiede l’introduzione di un “permesso per ricerca di lavoro” che non faccia differenze fra gli stranieri. Le code alle poste potrebbero essere così evitate, risparmiando ai migranti l’umiliazione di dover dormire per strada solo per sperare di conquistare un posto da “regolari”. Basterebbe l’introduzione di un meccanismo di regolarizzazione ordinaria: un’azione di legalità che garantirebbe anche la sicurezza sociale e civile dei cittadini. Chiunque voglia affrontare seriamente il tema della legalità e della sicurezza dovrebbe partire da una campagna di emersione del lavoro nero, con strumenti che consentano l’autodenuncia consensuale fra lavoratori e datori di lavoro.

Cambiare il governo dell’immigrazione significa sostanzialmente invertire la rotta. Servono, quindi, provvedimenti netti. “Come la chiusura dei Centri di permanenza temporanea – secondo Soldini una delle prime iniziative da attuare –, luoghi di non-diritto in cui lo straniero subisce un trattamento ‘speciale’: la detenzione in assenza di un reato”. Diversi rapporti della Corte dei Conti (2004, 2005) hanno giudicato peraltro eccessivamente onerosi i Cpt, senza neanche grandi risultati nella lotta alla clandestinità. Si va da un costo di 25 euro al giorno per la detenzione di un migrante fino ai 100 del Cpt di Modena. Soldi che potrebbero essere usati per costruire una rete di sportelli e servizi per gli stranieri – è la proposta della Cgil – anche perché la denuncia di Fabrizio Gatti (L’Espresso), e prima ancora quella di Medici senza Frontiere, dimostrano come i Cpt siano strutture peggiori delle carceri.

Nella piattaforma della Cgil l’aspetto securitario si affronta anche con uno spostamento di alcune competenze agli enti locali. Come per i permessi di soggiorno. “Il fatto che l’immigrazione sia completamente caricata sul ministero dell’Interno e sulle forze di polizia – spiega Soldini – produce una simmetria fra politiche d’ordine pubblico e politiche d’integrazione sociale”. Senza considerare, poi, che pratiche essenziali, e che dovrebbero essere tempestive, rimangono inevase per mesi e mesi.

Oggi la Cgil è tra i portavoce delle esigenze di cambiamento che le comunità straniere auspicano. Cresce la presenza straniera in Italia, così come cresce nel sindacato. Nel 2004 i lavoratori immigrati iscritti alla Cassa edile, per esempio, sfioravano il 19%, con punte superiori anche al 50% del totale in alcune aree del Nord. I dati offerti da un recente studio dell’Ires Cgil (A. Megale, M. A. Bernardotti. G. Mottura, Immigrazione e sindacato, IV Rapporto, Roma, Ediesse, 2006) dimostrano come i lavoratori non comunitari svolgano le mansioni più “dequalificate e usuranti”. Il loro reddito medio è inferiore a quello dei colleghi italiani (con un differenziale tra il 20 e il 24%).

Al Congresso di Rimini le storie dei delegati immigrati aiutano a capire perché la Cgil abbia maturato una piattaforma così dettagliata in tema d’immigrazione. Favorire l’incontro tra lavoratore straniero e sindacato significa poter assicurare a tutti condizioni più eque di trattamento. Senza differenze tra nazionalità. “Lavoravo in una ditta edile ma un giorno sono stato licenziato – raccontava a Rimini Edmond Velaj, delegato Fillea Cgil di Firenze –. Mi sono informato e ho scoperto che avevo dei diritti e potevo difendermi”. La manodopera straniera è molto sfruttata nell’edilizia. Quello di Edmond è un caso di “Allontanamento senza giusta causa” (articolo 7 dello Statuto dei lavoratori). A risarcimento ottenuto Velaj era, comunque, senza lavoro. Non è previsto il reintegro, infatti, per le piccole e medie imprese. “Ora studio, sono delegato da due anni e voglio essere il sindacalista di tutti, non solo degli stranieri – diceva di fronte alla platea congressuale –. I diritti sono universali e tutti i lavoratori devono essere tutelati”.

(www.rassegna.it, Rassegna sindacale, n. 11, marzo 2006)

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