Lavoro senza certezze. Articolo di Luciano Gallino

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(La Repubblica, MERCOLEDÌ, 22 MARZO 2006,
Pagina 40 – Economia)

PER MILIONI DI LAVORATORI UN FUTURO SENZA CERTEZZE


Offerti ai giovani posti per lo più a termine e largamente al di sotto del loro livello di istruzione

LUCIANO GALLINO
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Con enfasi ancor maggiore che nei precedenti comunicati attinenti la rilevazione continua sulle forze di lavoro, l´Istat nota che l´aumento dello 0,7% dell´occupazione, pari a 158.000 unità in più nel 2005 rispetto al 2004, «ha risentito in misura considerevole della progressiva iscrizione in anagrafe dei cittadini stranieri regolarizzati». Sono persone che di fatto già lavoravano, ma dato che né loro né le loro famiglie erano iscritte nelle anagrafi comunali, le rilevazioni campionarie dell´Istat non potevano coglierle. Insieme con le analoghe stime rilasciate poche settimane fa dalla Banca d´Italia, il dato non fa altro che confermare come un´economia cresciuta negli ultimi anni tra l´uno virgola qualcosa e lo zero abbia prodotto incrementi dell´occupazione effettiva non di molto superiori a zero. Né si vede come potesse risultare altrimenti. Ci sarebbe voluta non solo una stasi della produttività del lavoro, quale in effetti si è osservata, ma un vero crollo di essa, per poter registrare robusti aumenti effettivi dell´occupazione di fronte a un Pil in calma piatta.
Potrebbe però essere giunto il momento di soffermarsi non soltanto sulla quantità di lavoro effettivamente prestato in Italia dall´insieme dei cittadini vecchi e nuovi, ma anche sulla sua qualità. Perché quel che potrebbe succedere nelle relazioni industriali, nei vari tipi di movimento sociale, e nella politica in complesso, dipende da questa non meno che da quella. Ora, per valutare la qualità del lavoro le rilevazioni dell´Istat offrono indicazioni importanti, che andrebbero peraltro integrate da altre che l´istituto stesso non potrà mai fornire. L´Istat ci dice, ad esempio, che a fine 2005 i dipendenti a tempo determinato sono saliti al 12,7% del totale, con un più 0,7 rispetto all´anno prima. Un incremento di poco inferiore lo hanno fatto registrare i lavoratori a tempo indeterminato ma parziale. Si tratta in totale di quasi tre milioni di persone. E´ possibile che una parte di esse, per motivi personali e familiari, gradiscano il lavoro a termine, o il tempo parziale, o magari tutt´e due. Ma di certo la gran maggioranza vorrebbe condizioni di lavoro migliori.
La stessa quota di lavoro a tempo determinato indicata dall´Istat, il 12,7%, non mancherà di riattivare una volta ancora l´affermazione compiaciuta per cui, dopo tanto parlare di precarietà, si scopre che i precari sono soltanto uno su otto. In realtà i precari sono stimabili in circa il doppio. Per intanto i collaboratori coordinati e continuativi, che ancora esistono nella PA dove la Legge 30 non si applica, al pari dei collaboratori a progetto in cui la medesima li ha trasformati nel settore privato, sono considerati lavoratori indipendenti. Sono oltre un milione, pur detraendo da essi vari ruoli non assimilabili a lavoratori. Il loro contratto è per definizione a termine, dove il termine è spesso di pochi mesi. E ad essi vanno aggiunti i molti che hanno dovuto dotarsi di partita Iva per poter trovare lavoro, ma che sono in realtà dei lavoratori alle dipendenze. Inoltre la maggior parte di questi lavoratori ha dinanzi a sé un futuro previdenziale tra il grigio e il nero, perché non guadagna abbastanza per formarsi una pensione integrativa, di cui pure avrebbe assoluto bisogno.
Siamo dunque di fronte ad una massa di persone giovani e meno giovani, posta contro la sua volontà in una condizione occupazionale instabile, che oltre ad essere scontenta dell´oggi ha smesso semplicemente di guardare al futuro. Posto che essa ammonta a quasi il 20% degli occupati in totale, forse 4 milioni di persone su 22, la sua mera presenza costituisce di per sé, o dovrebbe costituire, una fonte di specifiche preoccupazioni economiche, sociali e politiche. V´è dell´altro. Ad onta del gran discorrere sulla società della conoscenza e sui contenuti di sapere & tecnologia che caratterizzerebbero i nuovi lavori, gran parte dell´apparato produttivo continua ad offrire ai giovani degli impieghi largamente al di sotto del loro livello di istruzione. Una giovane arriva a un bel diploma di perito elettronico, ma trova lavoro soltanto come inseritrice di dati commerciali in un PC. Un´altra, o un suo compagno, acquisisce una laurea triennale, più una specialistica, più magari un master, e finisce nella ristorazione rapida, oppure in un centro di assistenza clienti dove deve concludere con successo il “contatto“ telefonico entro tot secondi, altrimenti ne va della sua magra retribuzione oraria. Esiste insomma una vistosa sproporzione tra il livello di istruzione dei giovani, e il tipo di lavoro che l´organizzazione di molte aziende, nel privato come nel pubblico, continuano ad offrire.
Avere un contratto di lavoro di breve durata, magari ripetuto cinque o dieci volte, può essere sopportabile. Uno sopporta anche il part time che non vorrebbe. Per qualche lustro, finché si è giovani, ci si può concedere il lusso di non pensare al futuro. Si sopporta perfino la frustrazione di avere studiato tanto e bene, e di trovare soltanto lavori molto al disotto dello sforzo sopportato, come delle speranze coltivate. Ma un paese non può permettersi di avere alcuni milioni di giovani, e di assai meno giovani ormai, sulle spalle ed entro le teste dei quali tutte codeste condizioni contemporaneamente si sommano.

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