POLITICA. L`uomo flessibile. Un editoriale di Gad Lerner

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(La Repubblica, MERCOLEDÌ, 22 MARZO 2006,
Pagina 1 – Prima Pagina)

L´uomo flessibile


GAD LERNER

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Da qualche giorno una malaugurata illusione ottica ha posto al centro del dibattito pubblico italiano lo scontro fra due opposti Paperon de´ Paperoni: il miliardario Silvio Berlusconi e il miliardario Diego Della Valle.
La realtà sociale pare quasi indietreggiare cedendo spazio ai due campioni rappresentativi di affascinanti storie di successo. Certo, permane evidente la distanza fra i comportamenti dell´uno e dell´altro patron. Ma la caricatura alla fine ci costringe a semplificare, a scegliere fra due primattori del capitalismo eletti a simbolo di opzioni politiche alternative. Ormai assuefatti come siamo alla crescita esponenziale delle disuguaglianze di reddito, si sono modificate anche le nostre nozioni di giustizia sociale e di rappresentanza dei conflitti.
Al contrario, in Francia sembra tornata la lotta di classe. Con un protagonista nuovo, impossibile da mortificare in una mera dimensione identitaria etnico-religiosa: è scoppiata infatti a Parigi la rivolta dell´uomo flessibile. Che può essere anche bianco, battezzato, insomma figlio nostro.
L´uomo flessibile è quello che più di ogni altro subisce l´apartheid che separa i lavori protetti da quelli che non lo sono, come scriveva ieri Barbara Spinelli su la Stampa. Segnalando la collera di chi vede spezzarsi uno dopo l´altro i fili che dovrebbero tener stretta la società.
In Francia come in Italia, l´uomo flessibile è innanzitutto il giovane condannato a una dimensione esistenziale precaria. Una condizione che secondo i dati resi noti dalla Banca d´Italia riguarda addirittura la metà dei nuovi entrati nel mondo del lavoro nel 2005. Rovesciando le aspettative fino al punto che i giovani laureati, almeno inizialmente, percepirebbero secondo l´Ires Cgil un reddito inferiore ai giovani lavoratori non laureati.
Sono anni che predichiamo a questi giovani la fine del posto fisso. Li incoraggiamo all´autoimprenditorialità. Spieghiamo loro che senza propensione al rischio, senza disponibilità al cambiamento – insomma senza flessibilità – non c´è futuro.
Alla metamorfosi dei sistemi produttivi, all´economia dei downsizing e delle ristrutturazioni, si è infine sommato il nuovo tempo di guerra che è per sua natura il tempo dell´incertezza.
Così il messaggio si fa ancor più confuso. Perché nella morale bellica e nel linguaggio comune un uomo inflessibile resta assai più ammirevole dell´uomo flessibile. Ma è invece dell´uomo flessibile che il sistema mostra di avere bisogno. Senza alcuna garanzia che l´incertezza si traduca in miglioramento. Al contrario.
La flessibilità come virtù è il contenuto prevalente di tutte le modifiche legislative introdotte nel diritto del lavoro e, ancor più, nell´esperienza quotidiana di chi è in cerca di primo impiego. La pretesa ideologica che accompagna tale innovazione è ambiziosissima: si tratterebbe di realizzare una rivoluzione antropologica vincendo un bisogno di sicurezza liquidato come retrogrado. Quasi che l´economia di mercato si incaricasse di realizzare il sogno totalitario in cui prima di lei aveva fallito il marxismo: plasmare finalmente l´uomo nuovo, cioè, appunto, l´uomo flessibile. Prima nel mondo povero, ma adesso pure in casa nostra.
Non voglio qui discutere le stringenti necessità che sospingono l´economia europea a riformare i meccanismi d´accesso e di tutela del lavoro subordinato. Anche se sarebbe meglio verificarne per tempo gli esiti pratici nella mecca del pensiero unico, cioè all´interno del modello sociale statunitense: dovremo pur riconoscere che neanche il prolungato ciclo economico di crescita degli Usa ha invertito la tendenza al peggioramento delle condizioni di vita ai gradini bassi della scala sociale.
Ma senza troppo fantasticare su possibili modelli alternativi, mi limiterei a segnalare una ragione forte che già accomuna i giovani francesi in rivolta e gli ancora fin troppo sottomessi giovani italiani nel respingere come ingiusta la flessibilità prospettata loro.
Da che pulpito viene la predica?
Voltiamoci un attimo indietro e guardiamo come si sono comportati negli ultimi vent´anni i teorici della flessibilità, a cominciare dagli imprenditori italiani e francesi.
Troppo facile elogiare la propensione al rischio quando si tratta di intaccare le garanzie dei soggetti sociali più deboli, e poi rifugiarsi al riparo della concorrenza quando si tratta di proteggersi dal rischio d´impresa.
Perché mai a rischiare dovrebbero essere per primi i nuovi venuti e i poveracci?
Davvero, a cominciare dal nostro monopolista presidente del Consiglio, si è predicato bene e razzolato male. Quanta parte dei profitti industriali viene reinvestita in rendite finanziarie? A quante illegittime spartizioni di mercato abbiamo assistito? Quanti grandi imprenditori si sono rifugiati nella cuccia calda delle concessioni governative? Quanti fallimenti aziendali abbiamo visto corrispondere alle centinaia di migliaia, ai milioni di fallimenti lavorativi individuali? Come ha scritto Richard Sennett ne “L´uomo flessibile“ (Feltrinelli): «La manualistica popolare è piena di ricette per il successo, ma non dice molto su come affrontare un fallimento».
Ho sempre saputo che quando si deve incentivare la propensione al rischio e la rinuncia a garanzie di comodo, le élites sono chiamate per prime a dare il buon esempio. Se si deve cambiare, comincino i più forti a indicare la strada difficile, legittimando così i sacrifici richiesti ai più deboli…
Risultato: né i campioni nazionali del modello statalista francese, né tanto meno i protagonisti nostrani dei patti di sindacato e dell´economia di relazione, hanno i requisiti minimi per chiedere ai giovani di trasformarsi in uomini flessibili.
Questo è l´handicap che grava su ogni politica riformista in materia di diritto del lavoro, spiace dirlo a Pietro Ichino e agli altri studiosi che denunciano la plateale ingiustizia dei due mercati del lavoro subordinato: quello di serie A tutelato dai sindacati, e quello di serie B in cui i precari sono abbandonati a se stessi.
La rivolta dei giovani francesi e la silenziosa disillusione dei giovani italiani sono entrambe alimentate dalla scandalosa assenza di credibilità evidenziata dai rispettivi establishment.
La parola “rischio“, ricorda Sennett, deriva dall´italiano rinascimentale risicare, cioè “osare“. Ma quelle erano società giovani e aperte. I politici europei contemporanei misurano i loro consensi di fronte a un elettorato sempre più anziano, e dunque se non interverranno modifiche radicali nello stesso suffragio universale (per esempio l´assegnazione di più voti alle famiglie con figli minorenni) sarà ingenuo fare affidamento sulla loro lungimiranza.
Ecco allora puntuale riesplodere la tradizionale collera francese, anticipatrice di un moto destinato a spaccare anche la nostra società. I giovani sono David che fronteggiano il Golia della flessibilità, scrive ancora Sennett. Ma la rottura di solidarietà intergenerazionali rischia di avere effetti di lungo periodo non riducibili a un, per quanto biblico, duello. Perché, attenzione: «Un regime che non fornisce agli esseri umani ragioni profonde per interessarsi gli uni agli altri non può mantenere per molto tempo la propria legittimità». Si prospetta nella rivolta contro il precariato una vera e propria crisi di sistema. Il capitalismo flessibile emana un´indifferenza agli sforzi umani e al destino delle persone senza precedenti nelle esperienze comunitarie del passato.
La pretesa di forgiare l´uomo flessibile rischia di rivelarsi per lo meno altrettanto nefasta della clonazione umana.

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