DIRITTI. Cambogia, processo per genocidio 30 anni dopo

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(La Repubblica, LUNEDÌ, 03 LUGLIO 2006, Pagina 22 – Esteri) Cambogia, Khmer rossi alla sbarra processo per genocidio 30 anni dopo Oggi si insediano i 29 giudici, 12 sono stranieri nominati dall´Onu Colpevoli di 2 milioni di morti, sono stati però a lungo protetti RAIMONDO BULTRINI ________________________________________ Nessun processo per genocidio degli ultimi decenni, dalla ex Jugoslavia al Ruanda, alla Sierra Leone, è paragonabile a quello che 29 giudici saranno chiamati a condurre tra poche settimane in Cambogia. Tra il 17 aprile del 1975 e il 6 gennaio del 1979 un quarto dei sudditi di questo fertile ma poverissimo regno del Sud est asiatico, quasi due milioni di uomini, donne e bambini, fu sterminato durante il più sanguinario regime comunista del mondo, passato alla storia con il nome che gli affibbiò il vecchio re Norodom Sihanouk: “khmer rouge“, “khmer rossi“. Oggi ci sarà l´insediamento formale dei magistrati – 17 cambogiani più 12 stranieri nominati dalle Nazioni Unite -, tra una settimana inizieranno i lavori preparatori del processo che cinque giudici – due stranieri e tre cambogiani – condurranno a partire da una data ancora imprecisata del 2007. Molto è stato scritto sui limiti di questo processo che – tra morti, amnistie e l´esclusione delle figure minori – vedrà sul banco degli imputati solo un pugno di vecchi e malati ex compagni del responsabile numero uno, Saloth Sar, meglio noto col suo nome di battaglia Pol Pot, o “Fratello n. 1“, morto in circostanze ancora oscure il 15 aprile del 1998. Ma col tempo cresce anche l´imbarazzo sui veri motivi del ritardo con cui la giustizia cambogiana e quella internazionale arrivano a questo appuntamento storico contro i responsabili materiali dello sterminio di un numero tanto elevato di esseri umani. Il Partito comunista di Kampuchea poi diventato Partito della Kampuchea Democratica, trovò facili consensi nelle campagne dilaniate dalle 250mila bombe degli americani che uccisero mezzo milione di contadini «colpevoli» di trovarsi a ridosso delle aree controllate dai guerriglieri comunisti vietnamiti e imposero un governo fantoccio a Phnom Penh. Educati al pensiero anticolonialista e marxista nelle università francesi, Pol Pot e i suoi compagni elaborarono una sintesi più estrema dello stesso maoismo cinese. L´abbandono della vocazione agricola nelle società cosiddette “avanzate“ fu individuato come la vera causa dei problemi dell´umanità, e appena giunti al potere i khmer rossi imposero a tutti il lavoro nei campi, abolirono il denaro e sterminarono brutalmente ogni “intellettuale“, incluso chiunque indossava gli occhiali o conservava libri in casa. Il resto morì di stenti (i contadini lavoravano 12 ore al giorno) di carestie e per la mancanza di medicine. Chiuso al mondo per tutti i tre anni, otto mesi e 20 giorni di cui si occupa esclusivamente il processo, il paese fu liberato nel 1979 dalle truppe dei comunisti vietnamiti, nemici giurati di Pechino e di Washington. Da qui la protezione che i khmer rossi continuarono a godere fino agli anni ‘90, quando la parola “genocidio“ cominciò timidamente a circolare nei documenti delle Nazioni Unite, sui cui scranni gli uomini di Pol Pot sono rimasti seduti a lungo dopo il crollo del loro regime. Gran parte del mondo reagì con indifferenza alle prime notizie delle atrocità commesse nella famigerata prigione S21 di Tuol Sleng e alle migliaia di fosse comuni disseminate ovunque. Nemmeno la condanna in contumacia di Pol Pot e di suo cognato Ieng Sary da parte di un Tribunale del Popolo nel 1979 ebbe alcun seguito. Diecimila khmer rossi controllarono per quasi altri vent´anni una parte del paese finanziandosi coi traffici di pietre, legno e droga, armati segretamente dalla Cina e protetti dalla Thailandia con l´appoggio di Washington. Ieng Sary, oggi tra i pochi imputati superstiti nonostante una precedente amnistia, fu ospite di un convegno a New York nel 1981 e nel 1998 Nuon Chea e Khieu Samphan, numero 2 e 5 del regime, furono invitati a Phnom Penh a una conferenza di pacificazione tra le proteste delle vittime. Solo due imputati, l´ex capo militare Ta Mok e il capo dei torturatori Kaing Khek Iev, detto “Duch“, sono già in carcere. Gli altri vivono e lavorano indisturbati nella città di Pailin a ovest del Paese.

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