L’eutanasia, o delle parole pesanti

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Il termine “eutanasia”, è quanto mai abusato e impiegato a sproposito

(L’Unità, 8 gennaio 2006)


di Andrea Boraschi e Luigi Manconi

Perché non cominciare a chiamare le cose con il loro nome? In tanta confusione, non guasterebbe di certo: perché, sì, è comprensibile che le questioni “di vita e di morte” finiscano col polarizzare le posizioni in campo; ed è, di conseguenza, altrettanto comprensibile (e non per questo giustificabile) che le parole sfuggano di bocca e di penna, che si smarrisca – per dirla difficile – ogni rapporto tra “significante” e “significato”. Ma, negli ultimi tempi quella sequenza di consonanti e vocali, che dà forma e suono al termine “eutanasia”, è quanto mai abusata e impiegata a sproposito. Innanzitutto: esistono pratiche mediche di accelerazione del decesso (di un decesso che si prevede come risultato inevitabile di una prognosi infausta e a breve termine) che non sono eutanasia.

Valga, a titolo d’esempio, la questione della “sedazione terminale”, laddove l’accompagnare “dolcemente” il malato verso una morte, comunque inevitabile, non ha nulla a che fare con l’interrompere una vita: e risponde, piuttosto, a un mero dovere deontologico del medico, nonché a un gesto di umanissima pietas. Altrettanti fraintendimenti si addensano sull’impiego della formula “eutanasia passiva”, con la quale in molti accostano la pratica della sospensione delle cure a un “dare la morte”, ancorché indirettamente.

Forse è proprio sull’onda di questa interpretazione che una deriva, ambigua e perversa, porta a considerare la vicenda e la morte di come una questione eutanasica. Ma quella persona tutto ha chiesto fuorché di essere ucciso. Egli voleva, piuttosto, essere lasciato morire; voleva che alla sua malattia (dalla quale non poteva attendersi alcuna possibilità di guarigione e che s’era fatta dolore cieco), fosse lasciato corso naturale. Dunque, Welby intendeva sottrarsi a una condizione di vita assolutamente “artificiale”, del tutto “non naturale”, in cui le funzioni fisiologiche primarie sono assolte da macchine; una condizione nella quale trattamenti sanitari invasivi, vissuti come lesivi della dignità, supplivano a uno stato biologico “morente”, altrimenti già morto da tempo.

Interrompere le cure, qualora il paziente lo richieda, è cosa assai distinta e ben distante dal ricorso all’eutanasia. Interrompere le cure quando esse costituiscono solo una forma di accanimento terapeutico, poi, è doppiamente doveroso e ragionevole: tanto che lo stesso codice deontologico dei medici condanna espressamente qualsivoglia pratica di accanimento. Insomma, ci sono almeno due questioni sul piatto. La prima riguarda il diritto del malato (formulato nel dettato costituzionale e riconosciuto da più convenzioni internazionali, sottoscritte dall’Italia) a rifiutare qualunque intervento medico egli ritenga superfluo o dannoso o svilente della sua persona.

Il paziente, in tal senso, è riconosciuto come unico e assoluto titolare del corpo che si vorrebbe curare; e, in quanto tale, capace di richiedere l’astensione da qualsiasi terapia. La seconda questione, invece, ha a che fare con la natura stessa della pratica medica: con il fatto, cioè, che si deve individuare un limite al suo raggio d’azione. Un limite che, essendo funzione dei tempi, delle scoperte scientifiche, delle conoscenze teoriche e pratiche, deve coincidere con un confine ragionevole tra vita e sopravvivenza.

Ne consegue che le polemiche addensatesi sul “caso Welby” non possono essere ridotte alla contrapposizione tra opzioni di ordine politico o ideologico. Discutere della vita e della morte di quella persona alla luce delle fratture “classiche”, che percorrono la società italiana, si rivela inutile. Le opinioni di chi interviene sulla sua vicenda non possono essere scomposte nel confronto tra virtuosi estimatori del valore e della sacralità della vita e accaniti necrofili, cinici utilitaristi in vena di provocazioni. Altresì, quel confronto non coincide (neppure un po’) con i confini tracciati dalla distinzione laici/cattolici.

Basti leggere quanto segue: “Nell’immediatezza di una morte che appare ormai inevitabile e imminente è lecito in coscienza prendere la decisione di rinunciare a trattamenti che procurerebbero soltanto un prolungamento precario e penoso della vita, poiché vi è grande differenza etica tra procurare la morte e permettere la morte: il primo atteggiamento rifiuta e nega la vita, il secondo accetta il naturale compimento di essa” (così la Pontificia Accademia per la vita nel dicembre 2000).

La partita vera si gioca tra chi ha voluto prendere sul serio la sofferenza di Welby e chi, con atteggiamento non scevro da paternalismo, ha ritenuto di potersi sostituire alla sua volontà per “salvarlo”, per incatenarlo a una vita “lucida”, ma insopportabile. Giorgio Israel si chiedeva, sul Foglio del 12 dicembre: “Immaginiamo di incontrare una persona che sta per lanciarsi da un ponte. Lo fermiamo e gli chiediamo il perché del suo gesto e lui ci racconta i tragici eventi che gli hanno tolto ogni ragione di vivere. Sono motivi talmente gravi che ci convinciamo che egli non possa fare altrimenti: lo aiutiamo a scavalcare l’alto parapetto e gli diamo una buona spinta per facilitare il suo gesto. Chi giudicherebbe ragionevole un simile comportamento

Di più: quale persona degna di questo nome si comporterebbe così? Eppure si chiede di fare questo nel caso di un dolore fisico: non aiutare, accompagnare, assistere, e alleviare con tutti i mezzi un inevitabile declino, ma sopprimere”. E invece, diciamo noi, qui si trattava proprio di accompagnare, assistere e alleviare senza sopprimere. Il suicida di Israel può essere salvato: ma può tentare il suo gesto mille altre volte e infine portarlo a compimento.

Welby no, non poteva neppure questo. Ed è stato costretto alla vita oltre la propria volontà non da qualche benintenzionato salvatore, ma da macchine che l’avevano reso l’ombra dolente dell’uomo che era. E infine, a ben vedere, quel “parapetto” di cui parla Israel, Welby lo aveva scavalcato da tempo, e giaceva al suolo morente. Si doveva prolungare la sua agonia, che lo avrebbe condotto comunque a morte certa, tra mille dolori, o aiutarlo a spegnersi senza che fosse sopraffatto da una sofferenza inutile? Che, poi, al suicida di Israel la Chiesa riconosca un funerale religioso e a Welby no, ebbene, questa è cosa altra; da far pensare alle parole di Gesù, poco prima della sua morte: “beati quelli che piangono”.

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