L’auto indiana travolge i contadini

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Lo stato requisisce i terreni per conto di Tata, che con Fiat costruisce la low cost

(il manifesto, 7 febbraio 2007)


Il direttore finanziario di Tata Praveen Kadle, durante una conference call con gli analisti sui conti del gruppo indiano degli autobus e camion, qualche tempo fa, ha tenuto a sottolineare che il progetto di collaborazione sottoscritto tra la Tata Motors, una delle maggiori imprese indiane e la Fiat per lo sviluppo di nuovi modelli di veicoli per il mercato indiano «ci aiuterà a migliorare i sistemi di trasmissione e le tecnologie motoristiche». Perché oltre che di idee vincenti, dice Kadke, c’è bisogno di tecnologie nuove e capacità di design che le sviluppino, se si vuol competere con rivali come la tedesca Volkswagen e la statunitense General Motors, che stanno estendendo sempre più la loro presenza in India. Oltre a partner giusti con i quali lavorare.
I due gruppi collaboreranno quindi alla produzione di una nuova mini-auto, low cost o a basso costo, (meno di 100 rupie, pari a 2.200 dollari), da commercializzare dal 2008, e la cui immissione sul mercato indiano potrebbe rappresentare anche un freno alle mire espansionistiche di possibili concorrenti. Ma valle un po’ a spiegare queste maledette ragioni del mercato a quei contadini, circa 14 mila, cacciati dalle loro terre a Singur, poco fuori da Kolkata (capitale del Bengala occidentale), perché proprio su quei terreni agricoli, dove crescono riso, mostarda e patate, la cui coltivazione si tramanda da generazioni, dovrà sorgere la fabbrica che dovrà produrre «l’auto più economica del mondo».
Sarà anche un progetto «molto importante» per lo sviluppo dell’economia del paese, come ha spiegato Sabyasachi Sen, segretario all’industria. Ma più che una mossa ragionata sembrerebbe uno scacco matto l’aver recintato 1.000 acri di campi ben irrigati, qualche giorno fa, vicino alla principale strada dello Stato. E’ lo Stato che li ha «acquisiti» (per meglio dire, «requisiti») utilizzando una legge coloniale del 1894, da tempo desueta, senza chiedere prima il consenso dei proprietari.
La fabbrica darà lavoro a 10 mila persone, e la Tata Motors ha fama di trattare bene i dipendenti. Ma la cacciata dei contadini dai campi da parte del governo, con conseguente scippo delle loro terre per costruirci l’impianto, non ha deposto certo a favore di una soluzione pacifica. Le proteste dei contadini, che hanno tutto da perdere e ben poco da guadagnare, non si sono fatte attendere e in più casi sono sfociate in violenti scontri con la polizia. Sollevando di conseguenza un caso nazionale.
«Non ce l’abbiamo con lo sviluppo industriale ma con la requisizione selvaggia di terreni agricoli», spiega un leader dell’opposizione. Nel Bengala occidentale ci sono pochi terreni non agricoli e con una posizione favorevole per la costruzione dell’impianto, ribatte invece il governo.
Tra proteste e promesse, qualche coltivatore ha accettato l’indennizzo offerto dal governo – insufficiente per la maggior parte degli agricoltori – dietro la garanzia dell’assunzione nella nuova fabbrica automobilistica. Ma l’offerta non riguarderà tutti. E quelli che non intendono cambiare la propria vita, o che non saprebbero proprio dove andare a vivere, si preparano ad una lunga resistenza, sia contro le imposizioni del governo che contro la forza della Tata Motor, parte del Gruppo Tata, che solo nel 2005-2006 ha dichiarato redditi per 967,229 milioni di rupie (21,9 miliardi di dollari), circa il 2,8% del Pil nazionale.
Il prototipo della mini-auto intanto è già nella fase dei test.


Patrizia Cortellessa

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