Telecom, sette anni mancati I bilanci letti dai sindacati

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Un convegno a Milano ripercorre la storia del colosso telefonico: giochi finanziari per lauti dividendi e licenziamenti

(il manifesto, 3 marzo 2007)

Sara Farolfi

Milano

Trenta miliardi di ricavi stabili, una produttività che dal ’99 al 2006 è cresciuta del 66%, una riduzione del 40% (solo in Italia, e nello stesso periodo) del numero di dipendenti, e 45 miliardi di debito. E’ storia nota quella di Telecom. Quella che il lessico aneddotico in uso agli analisti finanziari racconterebbe come la storia della cash cow. La cosiddetta mucca da mungere. Messa sul mercato (nel 1999), acquisita a debito (prima da Colaninno poi da Tronchetti Provera) e appesantita da quello stesso debito che pure non ha contribuito a generare.
Storia nota, quella della «madre di tutte le privatizzazioni» come si dice, ieri ripercorsa in un convegno organizzato dall’Slc Cgil attraverso l’analisi di sette bilanci della società (dal ’99, annus domini per Telecom, al 2006) curata da Luigi Marconi (Practice Audit) e Sergio Cusani (Banca della Solidarietà). «Telecom Italia, quali prospettive?». Domanda non oziosa, visto anche il vociare degli ultimi giorni su contatti tra il monopolista italiano e il colosso spagnolo Telefonica. E dopo l’affaire Rovati (sul piano di scorporo della rete del colosso), costato le dimissioni al consigliere economico di Prodi. Storia utile anche, come hanno ricordato molti degli intervenuti ieri, per discutere delle caratteristiche del neocapitalismo all’italiana. Che cos’è diventata Telecom oggi? «Un gruppo domestico con una protesi in Brasile» dice Massimo Mucchetti, del Corsera.
Emilio Miceli, segretario generale Slc, parla di «tre emergenze», quella democratica (che riguarda la centrale spionistica che intercettava imprenditori, lavoratori, calciatori, giornalisti e dirigenti dell’azienda stessa, e su cui sono in corso le indagini della magistratura), quella «finanziaria» (su cui si è concentrata l’iniziativa di ieri) e quella «proprietaria» (la cessione di quote di Olimpia, la società con cui Pirelli controlla Telecom, alla spagnola Telefonica, voci poi raffreddate dagli spagnoli stessi e ieri anche da un comunicato Pirelli).
«Una certa sinistra grandezza» dice Cusani, è quella che si osserva scorrendo i bilanci Telecom. Dal ’99 al 2006, a un forte incremento degli investimenti cosiddetti immateriali (che per Telecom sono consistiti sostanzialmente nella vendita di azioni proprie), si è accompagnata una progressiva riduzioni di quelli materiali (in particolare alla voce terreni e fabbricati). In soldoni, giochi finanziari per grossi dividendi, pochi investimenti veri e tanti licenziamenti. L’indebitamento netto è passato, in sette anni, da 8 miliardi a 42; i ricavi si sono mantenuti stabili, mentre l’occupazione è passata dai 122 mila dipendenti del ’99 agli 84 mila del 2006 (-30% nel mondo e -40% in Italia). Colpiscono i dati sulla remunerazione degli azionisti: nei sette anni, il Gruppo ha prodotto 13 miliardi di utili e ha distribuito agli azionisti 22 miliardi di dividendo. Di una «remunerazione del capitale a detrimento della capacità di sviluppo dell’azienda» parla anche Mucchetti. «E se l’azionista, come il conte Ugolino, comincia a divorare il proprio figlio, significa che si è giunti a un punto di non ritorno e che occorrono cambiamenti radicali» conclude Miceli. Sì, ma in quale direzione?
«Siamo contrari all’operazione Telefonica, come anche a un’eventuale ipotesi di societarizzazione della rete – ribadisce Miceli – l’Italia ha bisogno di un grande gruppo di telecomunicazioni al pari di Germania, Francia e Inghilterra». Gli occhi sono naturalmente puntati sul Cda del prossimo 8 marzo, quando verrà reso noto il piano industriale. Dirimente comunque, e tutti sono d’accordo, è la questione delle reti. E conseguentemente, quella di nuove risorse da investire. «Sulla questione della rete e dei problemi aperti è necessario che tra Telecom, le altre aziende sul mercato e l’Autorità si trovi una soluzione – ha concluso Guglielmo Epifani – Altrimenti che intervenga il punto di vista della politica».

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