Un dilemma storico per la Cgil salvare i posti rinunciando ai diritti

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ROMA – I loro nomi ai più non dicono nulla. Ma Michele Gravano e Peppe Errico potrebbero diventare i sindacalisti chiave nella delicatissima vicenda per la sopravvivenza dello stabilimento della Fiat a Pomigliano d’Arco. Il primo è il segretario della Cgil Campania, il secondo di quella di Napoli. Entrambi sono ex operai proprio di Pomigliano. Due giorni fa hanno rilasciato una dichiarazione congiunta diretta ai «compagni» della Fiom: «E’ il momento di assumersi le responsabilità  all’altezza della storia della Cgil meridionale».

Difficile pensare che quelle parole non siano state concordate con i vertici romani di Corso d’Italia. E infatti il senso delle affermazioni pronunciate ieri dal leader della Cgil, Guglielmo Epifani, stanno lungo quel tracciato: «Pomigliano non ha alternative. Servono occupazione, sviluppo e investimenti». Insomma non può essere la Cgil a «chiudere» definitivamente i cancelli della fabbrica campana, dopo che gli altri sindacati hanno aderito alla proposta dell’azienda. Eppure le incognite restano. E sono tante. Oggi si riuniscono la segreteria della Cgil e il Comitato centrale della Fiom che dovrà  decidere se accettare il piano della Fiat, se partecipare al referendum tra i lavoratori, se dare il sì o il no come indicazione di voto. La «tripla» più difficile da decenni per i metalmeccanici fiommini. Potrebbe arrivare una clamorosa spaccatura interna insieme alla sconfessione della linea da parte della stessa confederazione dopo il messaggio, per quanto cauto, di Epifani. Di certo la vertenza Pomigliano è diventata il paradigma di un nuovo modello di relazioni industriali. L’ha detto il ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi, ne è convinta la presidente della Confindustria, Emma Marcegaglia. Lo sanno la Cisl e la Uil di Raffaele Bonanni e Luigi Angeletti. Il Lingotto fa da apripista come già  accadde nel 1980 con la «marcia dei quarantamila» per le vie di Torino che infilò i sindacati in una profonda e lunga crisi di rappresentatività  e cambiò per decenni i rapporti di forza, come si diceva all’epoca, tra capitale e lavoro.
L’italo-canadese Sergio Marchionne detesta i rituali del nostro sindacalismo, ma è un abile negoziatore: ha piegato la General Motors nello scontro sulla cosiddetta «put», poi ha inchiodato i potenti sindacati americani dell’auto ad accettare durissimi sacrifici per non abbandonare al fallimento la Chrysler, ora ha lasciato nelle mani dei conflittualisti della Fiom il cerino di Pomigliano. Prendere. O lasciare che la Panda continui ad essere prodotta in Polonia a Tichy, dove la produttività  è alta e la difettosità  bassa, cioè l’opposto di Pomigliano dove proprio Marchionne tentò nel 2007, ma con risultati insufficienti, la «rieducazione» dei 5.000 addetti ai nuovi canoni della produzione automobilistica, quelli della world class manufacturing ispirati dal giapponese Hajime Yamashina. Ora ci riprova.
Marchionne ha messo sul tavolo 700 milioni di investimento, la conferma dei posti di lavoro (15 mila con l’indotto). Ma ha chiesto più turni di lavoro, meno pause, più straordinari obbligatori, l’azzeramento dell’anomalo assenteismo in occasione degli appuntamenti elettorali. E anche la limitazione del diritto di sciopero e al pagamento dei primi giorni di malattia. Un pacchetto da prendere tutto insieme o da lasciare sul tavolo, mentre la crisi sta decimando posti di lavoro. Questo è il dilemma di Epifani che ben sa come il ricorso al referendum possa trasformarsi in una grande sconfitta per la Cgil: chi potrà  votare a favore del proprio licenziamento?
La matassa è complessa e intricata. La proposta di Marchionne deroga al contratto nazionale e anche alla legge. La Cgil pensa che possa violare addirittura la Costituzione laddove sanziona gli scioperanti. Epifani ha chiesto un parere ai suoi giuristi che dubitano si possa fare un referendum sindacale su quei temi. Però – e non è di poco conto – Epifani ha sostanzialmente detto sì alla nuova organizzazione del lavoro. Ora scommette sui due anni entro i quali andrà  a regime il piano di Torino. Una tattica attendista che mal si concilia con il rapido decisionismo di Marchionne.


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