15mila morti nascoste dal Pentagono

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È la più massiccia «fuga» di documenti riservati nella storia militare degli Stati uniti. Quasi 400mila documenti «classified» – coperti da segreto – sulla guerra in Iraq nel periodo 2003-2009 sono da ieri visibili a tutti sul sito web di Wikileaks. E anche se a Washington i portavoce del ministero della difesa assicurano che si tratta di semplici «rapporti dal campo», nulla di davvero top secret, pure quell’archivio elettronico fornisce un ritratto spaventoso della guerra in Iraq e delle responsabilità  sia delle forze d’occupazione Usa, sia di polizia e ed esercito iracheno.
Dai documenti di Wikileaks emerge un’oscura rivelazione sulla notte in cui l’agente del Sismi Nicola Calipari fu ucciso sulla strada per l’aeroporto di Baghdad mentre stava portando in salvo Giuliana Sgrena, la giornalista del manifesto appena liberata. Il Bureau of Investigative Report di Londra ha rintracciato un rapporto in cui una fonte dice che «dopo aver ricevuto 500 mila dollari di riscatto per Sgrena, il capo della cellula di Baghdad (…) informò il ministero dell’interno iracheno che l’auto era un’autobomba. La «fonte» sarebbe l’ex capo di una cellula di Baghdad responsabile di molti rapimenti di stranieri; arrestato nel 2005, fu trasferito in Giordania per essere interrogato. All’epoca dell’inchiesta bilaterale sulla sparatoria, l’Amministrazione Usa sostenne che era stata l’auto italaian a forzare un regolare posto di blocco.
L’ondata di documenti di Wikileaks contiene dettagli su torture, esecuzioni sommarie, e di una vera e propria strage di civili. Anche stavolta alcuni media internazionali (il britannico Guardian, la tv araba al Jazeera e il New York Times) hanno ottenuto i documenti in anticipo.
Il primo elemento di novità  riguarda le vittime civili della guerra. Intanto, risulta che i morti tra la popolazione civile sono almeno 15mila più di quanto sia stato stimato finora. Iraq Body Count, gruppo di ricercatori universitari e attivisti per la pace che ha sistematicamente raccolto le notizie di vittime civili, ha esaminato tutti i documenti insieme a Wikileaks: vi ha trovato circa 15 mila morti civili di cui non sapeva. «Ora possiamo dire che oltre 150mila persone sono state uccise in totale dal 2003, di cui circa l’80% sono civili», ha riassunto John Sloboda, co-fondatore di Iraq Body Count, intervenuto ieri a Londra alla conferenza stampa del fondatore di Wikileaks, Julian Assange. Non solo. Le autorità  militari statunitensi (e britanniche) hanno sempre sostenuto di non avere un conto delle vittime civili nel periodo post-invasione. Ma ora sono sono smentite dalla mole dei «field reports» resi pubblici ieri, che indicano sempre in modo preciso i caduti, combattenti e non: contano 66.081 morti non-combattenti su un totale di 109mila tra il 2004 e il 2009 (gli altri sono 23.984 «nemici», 15.196 uomini delle forze irachene, e 3.771 militari Usa e alleati). Il conteggio dunque c’era.
Sono persone uccise a posti di blocco, nel fuoco incrociato durante operazioni militari, su mine per le strade, per uccisioni «settarie». I dati Usa tornano vaghi quando si tratta di morti civili causate dalle proprie attività : ad esempio non esiste conto di vittime civili a Falluja, teatro di una guerra urbana nel 2004 (secondo Iraq Body Count vi morirono almeno 1.200 civili).
L’altro elemento di novità  in quell’archivio di guerra riguarda la deliberata politica americana di non indagare sulle centinaia di casi di abusi, tortura e uccisioni commessi dalle forze di sicurezza irachene. Non è la prima volta che le forze di sicurezza irachene sono accusate di abusi e torture, ma qui compaiono rapporti dettagliati (perfino video) su numerosi casi, da «semplici» pestaggi a sistematiche torture.
E compaiono perché le forze Usa vedevano e prendevano nota: i rapporti però concludevano «non è necessario investigare». Questo è il risultato di un ordine di servizio noto come Frago 242 (sta per «fragmentary order», direttiva che riassume norme più complicate): emesso nel giugno 2004, ordina alle truppe della coalizione di non indagare i casi di violazione delle leggi sui conflitti armati, tra cui abusi sui detenuti, quando non coinvolgano membri della coalizione stessa. Dunque per abusi commessi da iracheni su iracheni «basta stendere il rapporto iniziale».

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IL FONDATORE DEL SITO
I tre mesi di passione di Julian Assange
raffaele mastrolonardo
I tre mesi di passione di WikiLeaks. Così può essere descritto il periodo intercorso tra la pubblicazione, a luglio, di 75 mila documenti segreti sulla guerra di Afghanistan e le rivelazioni sull’Iraq di questi giorni. Nello spazio di tempo tra i due maggiori scoop della sua storia, il progetto e il suo creatore, l’australiano Julian Assange, hanno dovuto fronteggiare non solo gli attacchi dei tradizionali detrattori, ma anche le critiche di organizzazioni «amiche», indagini giudiziarie e, per la prima volta, la protesta di alcuni esponenti del progetto. Tre mesi delicati, nei quali il sito web è stato a lungo inaccessibile e da più parti si è dubitato della salute dell’iniziativa. I primi problemi sono cominciati subito dopo le rivelazioni afghane, quando il Pentagono ha accusato WikiLeaks di avere messo in pericolo gli informatori delle forze Nato esponendoli alle vendette dei taleban. Per questo è stato rimproverato anche da Reporters sans frontiers (la settimana scorsa però il Segretario alla difesa Usa Robert Gates ha ammesso di non avere indicazioni che simili episodi si siano verificati). Pochi giorni dopo è arrivata l’accusa di stupro e molestie ai danni di Assange in Svezia, dove è ancora indagato. Anche a seguito di questa vicenda il direttore di WikiLeaks ha dovuto incassare le prese di distanza di personaggi interni o vicini all’organizzazione. Birgitta Jà³nsdà³ttir, parlamentare islandese che ha collaborato alla pubblicazione di un video che mostra l’uccisione di civili iracheni da parte di un elicottero americano a Bagdad, ha criticato l’australiano sulla stampa chiedendo una maggiore collegialità  nelle decisioni. Daniel Domscheit-Berg, per anni portavoce del sito sotto lo pseudonimo di «Daniel Schmitt», è stato allontanato a settembre per divergenze strategiche: contestava la scelta di concentrarsi su grandi scoop, come quelli sull’Afghanistan e l’Iraq, trascurando centinaia di documenti minori provenienti da tutto il mondo. Prese di posizione forti da parte di volti noti di un’organizzazione di solito assai riservata. Abbastanza perché qualcuno parlasse di «fronda». Assange, da parte sua, ha sempre minimizzato. E i 400 mila documenti sulla guerra in Iraq appena pubblicati sembrano dargli ragione: WikiLeaks, nonostante attacchi e problemi, appare più vivo che mai.


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