Democrazia in cammino
Un coro potente, appassionato, un concerto non dissonante, allegro. L’acqua in primo luogo. Il successo clamoroso nella raccolta delle firme ha un valore in sé, ma descrive anche una forma di partecipazione, alternativa a quella democrazia che si risolve in un sol giorno, in un solo voto e poi rimette le scelte degli altri giorni a un migliaio di professionisti politici, talvolta capaci, talvolta inaffidabili. Il governo dell’acqua lo vorremmo invece affidato a persone competenti e motivate, al corrente delle cento caratteristiche locali di domanda e di offerta idrica. I referendum e la manifestazione che li lancia servono proprio a collegare queste diversità in un impegno comune. A risparmiare e risanare; e inoltre a estinguere tutte le seti con equità ; a non sprecare mai, non sporcare mai il bene prezioso. Il modello partecipativo ha due pregi, tra gli altri. Mette al sicuro l’acqua da inopinate vendite di comuni indebitati a padroni multinazionali. Si evita così di sottoporre l’acqua di tutti alla finanza che, come si sa, non ha mai sete di acqua, ma sempre e solo di dividendi. Il movimento ha poi un altro obiettivo: impedire che l’investimento di grandi capitali nel settore idrico renda indispensabili profitti che solo la lievitazione delle bollette consente. Né va mai dimenticata la deformazione, il vero e proprio cambio di stato, che subisce l’acqua in bottiglia. Questa ha l’effetto di impoverire, di acqua buona e di denaro, gli enti locali, costretti oltretutto a subire la pubblicità negativa che «la minerale» evoca nei confronti dell’acqua del sindaco – di tutti i sindaci – dal momento che quest’ultima diventa meno potabile, meno sana, di fronte alle acque reclamizzate alla televisione. La riflessione collettiva per la giornata mondiale dell’acqua ha mostrato i problemi crescenti che le generazioni future dovranno affrontare, per bere, lavarsi, nutrirsi, produrre il necessario: in pace e sicurezza. Le soluzioni che i poteri economici mondiali suggeriscono sono quelle di affidare alla legge del profitto tutto il problema della sete che verrà . Servono investimenti giganteschi, ci avvertono, e noi soltanto possiamo procurarli. Servono scienza e tecnica e noi soli ne siamo depositari. Scienza e tecnica, ma sarebbe meglio dire conoscenza, sono invece valori universali, non quotati, non brevettati. Quelli delle multinazionali sarebbero sorpresi se si rendessero conto di quante cose sappiamo, noi dei beni comuni, noi che rifiutiamo gli steccati e le barriere in cui cercano di rinchiuderci. Da loro più che soluzioni ci aspettiamo problemi. Il profitto immediato che essi pretendono non disseta le città che raccoglieranno in un prossimo futuro tanta parte dell’umanità . Nelle enormi città dei nostri nipoti, se lasciamo che le multinazionali erigano le loro barriere, ci saranno ovunque ghetti per ricchi; e intorno poveri che pagheranno per tutti o saranno liberi di morire di sete. Nucleare e legittimo impedimento, nel giorno dell’acqua, non sono espressioni di volontà popolare separate tra loro. Descrivono in primo luogo una forma di democrazia popolare in cui tutto si tiene. La gestione idrica, la forma dell’energia, : rinnovabile e diffusa, impostata sul risparmio oppure l’altra, di enorme taglia, con una gigantesca – ed eterna – impronta lasciata nella natura. Oggi l’occasione di ridisegnare il paese di domani è formidabile. Si parla infatti anche di giustizia, dell’eguaglianza universale e di chi è più uguale di tutti di fronte alla legge e può far valere il suo impedimento, per legittimo o truffaldino che sia. E poi la guerra. Noi della pace non abbiamo talvolta buona stampa, accusati come siamo di protestare solo in determinati casi, contro alcuni regimi e non contro altri. In primo luogo, la protesta è sempre contro il governo, contro le sue politiche, le sue alleanze. Dieci anni fa a Genova la protesta voleva dire «non in mio nome» questa guerra contro l’Iraq e il movimento italiano – Carlo Giuliani tra i tanti – voleva rappresentare la volontà dei giovani del mondo intero in lotta contro la guerra. In Libia, cent’ anni fa abbiamo aggredito e sottomesso popolazioni che non ci avevano fatto niente di male. Poi, per i trent’anni successivi, le truppe italiane le hanno oppresse e massacrate, mentre cercavano di ribellarsi. Non saranno i miliardi di Bonaventura-Berlusconi a ripagare quei torti. Servirà piuttosto una forma di interposizione, la proposta di trattative, un’azione finalmente non violenta. 26 marzo. Una data da ricordare.
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