Fukushima, una storia di veleni e corruzione 2

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Kozo Watanabe è soprattutto l’uomo che negli anni Settanta, quando militava ancora nel Partito liberaldemocratico, ottenne la costruzione della centrale nucleare nella propria circoscrizione elettorale, Fukushima appunto.
E se lo zio porta a casa l’atomo, il nipote ci porta il mixed oxide fuel (Mox), la miscela di plutonio e uranio, estremamente velenosa, che alimenta il reattore 3 e su cui sia il governo giapponese sia la Tepco continuano a tacere.

Il motivo dei silenzi è forse da rintracciare nell’imbarazzo che questa storia potrebbe suscitare sia alla compagnia energetica sia ai due politici imparentati e, di conseguenza, al Partito democratico al governo.
Il Mox arriva a Fukushima I a settembre 1999, nella forma di 32 “elementi” (le strutture che contengono le barre di combustibile), che però vengono bloccati e immagazzinati perché nel frattempo è scoppiato lo scandalo dei documenti di sicurezza falsificati dalla British Nuclear Fuels plc (Bnfl) e il governatore di allora, Eisaku Sato, comincia la sua campagna anti-Mox. Il programma pluthermal è ufficialmente abbandonato ad agosto 2002, quando si scopre che fin dal 1977 la Tepco ha sistematicamente occultato i problemi di sicurezza delle proprie centrali. Non solo: l’intera centrale di Fukushima I viene chiusa fino al 2005.

Con il nuovo Sato, la Tepco torna all’attacco e il 20 gennaio 2010 ripresenta la domanda per il programma pluthermal a Fukushima I. Sato concede il permesso e all’assemblea locale spiega (16 febbraio) che il suo consenso è stato accordato condizionalmente previe garanzie di “sicurezza sismica, contromisure all’invecchiamento e integrità  del combustibile Mox“.
A quel punto, la Tepco fa un’ispezione del combustibile stoccato: la prima dopo più di dieci anni. Il Citizens’ Nuclear Information Center (Cnic) denuncia che sia stato un controllo “solo visivo“.

La miscela di plutonio e uranio diventa quindi a tutti gli effetti parte (il sei per cento) del combustibile che alimenta il reattore 3 della centrale e il progetto pluthermal intercetta un finanziamento statale di 60 miliardi di yen (circa 525 milioni di euro al cambio di oggi). Sono i cosiddetti sussidi di “installazione del sito”, che ogni anno finiscono nelle casse delle prefetture che hanno accettato il nucleare sul proprio territorio, per un totale di circa 150 miliardi di yen su scala nazionale. Sono finanziati dalla collettività  attraverso una speciale tassa applicata alla bolletta energetica e pagano le infrastrutture e le spese di manutenzione degli impianti. Ma non solo: con quel fiume di soldi si costruiscono anche scuole, uffici pubblici, biblioteche e così via. Tutto ciò che migliora la qualità  della vita in una determinata area e, soprattutto, garantisce un ritorno politico.
E infatti, il 31 ottobre 2010, Yuhei Sato viene rieletto governatore a grande maggioranza.

Appurato lo scambio politico, resta da verificare se dietro alla vicenda del Mox a Fukushima ci siano anche interessi economici diretti degli uomini chiamati a decidere. Per il momento, la scarsa trasparenza dei politici e della Tepco lo fa sospettare a molti giapponesi.
In realtà , come osserva lo scrittore antinuclearista Hirose Takashi, bisogna chiedersi perché nessuno stia parlando, per Fukushima, della soluzione più drastica ma sicura: la chiusura della centrale e il suo seppellimento sotto un sarcofago di cemento armato come quello utilizzato a Chernobyl. Secondo Takashi ci sono due risposte. La prima è la perdita finanziaria netta che la chiusura degli impianti provocherebbe alla Tepco e ai politici locali. La seconda è più sottile: riconoscere che la centrale va chiusa significa ammettere l’ipotesi peggiore e cioè che tutti i dieci reattori delle due centrali di Fukushima (I e II) andrebbero seppelliti sotto una colata di cemento.
Un’ammissione con inevitabili ricadute su tutta la politica energetica nazionale.

 Vedi anche: Fukushima, una storia di veleni e corruzione


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