Fukuyama: “Così la Primavera araba conferma le mie tesi”

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(PALO ALTO) – “Quel che sta accadendo nel mondo arabo è la migliore conferma della mia tesi del 1989 su La fine della storia. Allora, quando osservai che la liberaldemocrazia era lo stadio più avanzato nell’evoluzione delle società  umane, tra le obiezioni che ricevetti c’era proprio quella di chi mi rinfacciava l’eccezione araba. Ecco, oggi vediamo che quell’eccezione non esiste. I popoli arabi non sono diversi da noi, hanno le stesse aspirazioni, la stessa dignità “. E’ il momento di un ritorno di gloria per Francis Fukuyama, il celebre e controverso studioso americano di scienze politiche. Esce in America un suo nuovo saggio, The Origins of Political Order, il primo volume di un’opera monumentale: l’analisi delle società  umane e dei sistemi politici dalla preistoria ai tempi moderni, con un taglio interdisciplinare che prende in prestito anche le teorie evolutive della biogenetica. E’ un saggio che fa notizia fin dalla dedica: è in memoria di Samuel Huntington, il teorico dello “scontro di civiltà ” scomparso nel 2008, che fu al tempo stesso un maestro di Fukuyama e un suo fiero avversario intellettuale. Tante cose sono cambiate dal primo libro che lo proiettò nel dibattito mondiale. In seguito Fukuyama ha disertato i ranghi dei neoconservatori. Di recente si è trasferito dall’università  Johns Hopkins di Washington a Stanford, un passaggio dalla East alla West Coast che ha significato anche una presa di distanza dall’attualità  politica («a Washington fior d’intelligenze studiano quel che accade in Cina di ora in ora, ma pochi possono parlare in modo competente della dinastia Han»). Oggi però l’attualità  lo insegue, riportando in auge la sua tesi più controversa, quella che lui lanciò all’epoca della caduta del Muro di Berlino. L’idea della “fine della storia” ebbe un successo immediato, parve catturare lo spirito di un’epoca: il momento unipolare, il trionfo dell’America con la caduta del comunismo. In seguito quella teoria cadde in disgrazia, via via che l’avanzata delle democrazie si scontrava con rovesci e delusioni: Fukuyama divenne il bersaglio ideale per accusare l’America di arroganza imperiale. Oggi paradossalmente, mentre lui assapora un ritorno di celebrità  e di autorevolezza, è proprio sullo stato dell’America che il suo ottimismo s’incrina. Professor Fukuyama, partiamo dagli eventi in Libia, Egitto, Tunisia, Siria, Giordania, Yemen. Siamo di fronte a un altro 1989, la caduta del Muro della “diversità ” araba? «Certo, rivediamo un fenomeno già  accaduto in passato, sotto altri cieli e in altri contesti: vaste masse si mobilitano perché non tollerano più di vivere sotto il giogo delle dittature. E quel che vogliono non è molto diverso dalla democrazia intesa nel senso occidentale. E’ il trend di lunga durata che a suo tempo definii come la terza via o terza ondata delle democrazie: quella che ebbe inizio con le transizioni post-autoritarie di Spagna Portogallo e Grecia, poi si trasferì in America latina, infine nell’Europa dell’Est. In quei vent’anni in cui il numero delle democrazie triplicò, l’unica parte del mondo che sembrava isolata dal contagio era il mondo arabo. Ora abbiamo la prova che i valori della liberaldemocrazia non sono esclusivi, non appartengono a un solo tipo di cultura». La sua nuova opera è un affresco storico di lunga durata. Che cosa ci può insegnare sulle convulsioni del mondo arabo di questi mesi? «Nel mio lavoro storico guardo alle origini delle istituzioni che fondano la democrazia e lo Stato di diritto. Nessuna di queste istituzioni è scontata, non possiamo darle per acquisite, sono il frutto di un’evoluzione e di un lavoro paziente. Ricordo la delusione che ci fu quando dopo la caduta del Muro di Berlino arrivarono le cosiddette “rivoluzioni arancioni” nelle repubbliche ex-sovietiche (Georgia, Ucraina, Kazakhstan), e alcune finirono per rimettere al potere degli autocrati. Questo accadde perché i movimenti democratici non erano stati capaci di costruire istituzioni forti. Ebbene, oggi esiste lo stesso rischio in Egitto dove mancano istituzioni e le uniche forze in campo sono i militari e i Fratelli musulmani. Entro due anni potremmo avere delle enormi delusioni dalle rivoluzioni del mondo arabo». Dunque il fatto che nelle “Origini dell’ordine politico” lei faccia uso di teorie evolutive come nella biogenetica, non significa riesumare un determinismo storico o un cammino ineluttabile verso il progresso, alla Hegel-Marx. «No, la storia è piena di incidenti, imprevisti, è segnata anche dal ruolo o dall’assenza di leadership. E in quest’opera insisto sull’importanza decisiva delle istituzioni, per sottrarsi ai capricci umani. Inoltre, anche se la natura umana è una sola, universale, ogni comunità  sviluppa le sue regole particolari e può rimanerne prigioniera a lungo. 22 secoli fa i cinesi inventarono quella che era di gran lunga la più efficiente e moderna burocrazia statale centralizzata. Quella è rimasta a lungo la forza della Cina, ma anche un suo limite». La Cina resta il più importante modello alternativo all’Occidente. La recessione globale del 2008-2009 sembra perfino avere rafforzato quel capitalismo autoritario e dirigistico. Ma lei di recente ha preso spunto dalle rivolte arabe per fare una previsione: la prossima volta tocca ai cinesi. Ne è così sicuro? «La Cina non è un’eccezione. Anche là  c’è un risentimento contro i metodi di governo autoritari. La differenza è che la classe dirigente cinese è più efficace e intelligente, ha saputo generare crescita e occupazione. Non esiste in Cina il problema di una vasta gioventù istruita e disoccupata, come nel mondo arabo. Inoltre Pechino è più efficiente nel soffocare in anticipo ogni virgulto di protesta. Ma non esiste una differenza culturale di fondo tra i cinesi e il resto del mondo. Quel che conta è la storia, e la storia può imboccare dei percorsi con delle lunghe deviazioni». Proprio mentre la voglia di democrazia fa crollare il Muro arabo, l’entusiasmo per questo sistema politico si è appannato proprio nella sua culla, qui negli Stati Uniti. «L’America vive un’epoca molto difficile, e non solo per le sue debolezze economiche. L’intero sistema democratico sembra paralizzato dallo scontro fra i partiti, la polarizzazione è ai massimi, le intese bipartisan per risolvere la crisi di bilancio e fare le grandi riforme necessarie sembrano irraggiungibili. C’è il rischio che la situazione debba peggiorare ancora molto, precipitando fino a sbocchi drammatici, prima che vi sia un soprassalto nazionale. La soluzione può arrivare tardi, e con costi elevati. Non vi è neppure la certezza che questa soluzione arrivi. L’ho detto: non c’è un determinismo della storia. I popoli che vivono nelle democrazie devono essere molto vigilanti, perché dalla democrazia si può anche regredire».


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