Gheddafi non dà  tregua alle città  ribelli

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TRIPOLI – I due fronti di Libia raccontano ancora di una guerra difficile e complicata da comprendere, nei suoi fatti e nella sua evoluzione. Innanzitutto Misurata, la città -martire della Tripolitania, vicina a Tripoli, e per questo sotto attacco massiccio di Gheddafi. Ieri da Bengasi alcuni pescherecci carichi di aiuti sono riusciti ad arrivare nel porto della città  occidentale; secondo un portavoce degli insorti che ha parlato con l’Ansa, «il porto è ancora in mano nostra ma la città  è completamente circondata». L’assedio continua da 35 giorni, acqua e luce sono state tagliate e per ora i raid aerei della coalizione non sono riusciti a fermare l’esercito gheddafiano. Sull’altro fronte la battaglia è in corso ad Ajdabya: 160 chilometri a sud-ovest di Bengasi, la città  è l’ultimo centro prima di chilometri e chilometri di deserto che i gheddafiani potrebbero tornare a percorrere per arrivare alle porte della capitale della Cirenaica. Anche ieri caccia alleati (britannici) hanno colpito blindati e lanciarazzi di Gheddafi; i ribelli si sono riorganizzati ma ancora non hanno avuto la forza di spingere fuori dalla città  le truppe di Gheddafi. Secondo un loro portavoce, Ibrahim Faraj, gli anziani di Ajdabya hanno avviato una mediazione con gli ufficiali gheddafiani per convincerli a ritirarsi rinunciando a combattere, a portare altri lutti e distruzioni fra i loro fratelli libici. Qui a Tripoli ieri era venerdì, giorno di preghiera e di protesta. Il regime ha blindato la città , non ci sono arrivate voci di contestazioni o di disordini come in ogni altro venerdì da un mese a questa parte. Il governo continua nello strategico tentativo di dimostrare che i bombardamenti alleati hanno fatto vittime fra i civili. Ieri per l’ennesima volta è stato messo in piedi un teatrino per i giornalisti internazionali: in una bella fattoria a 20 chilometri ad est della città  e a poche centinaia di metri dal mare tutti sono stati chiamati ad assistere agli effetti di «un missile andato fuori bersaglio». Innanzitutto è stata un’occasione per uscire dall’albergo e fare un grande giro verso est, aggirando con una superstrada il quartiere ribelle di Tajura, dove la polizia e i miliziani “kataeb” bloccavano ogni via d’accesso. Tutte le stazioni di benzina ieri mattina erano chiuse, davanti ad ognuna code chilometriche, con le macchine in file di tre o quattro, chiuse e abbandonate dal proprietario. Uno ci ha spiegato: «Siamo qui perché siamo senza benzina, fra poco le auto si fermerebbero lo stesso. Io la lascio qui e vado a mangiare, speriamo che prima o poi riaprano». Il governo con un comunicato annuncia che «non c’è carenza di carburante». Ma torniamo al “giardino del missile”, la fattoria del danno collaterale. Qualcosa potrebbe essere accaduto, effettivamente la parte terminale di una bomba colpita magari dalla contraerea potrebbe essere precipitata tra gli alberi da frutto e le palme. Ci sono i resti di parti metalliche, di un’aletta direzionale, marchi e sigle “made in Usa”. Ma i segni della messinscena sono tanti: innanzitutto un muro crivellato di proiettili di Kalashnikov a simulare le schegge di una bomba che però non è esplosa. I bossoli del Kalashnikov erano sul tetto, qualcuno ha sparato di lì sperando che nessuno se ne accorgesse. E poi non c’è nessun segnale di esplosione, fumo, puzza, bruciato. Ancora: uno dei fratelli proprietari della fattoria dice che è stata ferita sua figlia di 18 anni, e che è stata portata in ospedale. È stata ferita da una scheggia? «Forse». Il fratello a dieci metri dice invece che è stato ferito un ragazzo di 8 anni, mentre addirittura le bimbe della casa dicono che al mattino sono arrivati gli uomini del governo, hanno anche litigato con i grandi, poi si sono messi d’accordo sui soldi del risarcimento. La voglia di mandare in giro nel mondo le immagini di falsi-funerali, false-vittime, falsi-incidenti non toglie che prima o poi un incidente del genere possa accadere. E soprattutto quelle immagini potranno essere prese per buone da chi, magari come Vladimir Putin, ha bisogno di queste accuse per frenare il ruolo della coalizione in Libia. Il che dimostra come il regime di Gheddafi continui con forza, come può, a fare politica e propaganda, a cercare alleati e sodali. Aspettando che gli altri, la coalizione, si stanchino o si frantumino ancora di più fra loro.


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