Il contrabbando dai Balcani al Ciad così le mafie aiutano Tripoli

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ROMA – Nel mare nostro dei contrabbandi, il Mediterraneo, il colonnello Gheddafi ha fatto saltare il banco. Mercoledì, a Bruxelles, l’Alleanza Atlantica, nell’annunciare il blocco navale del regime, ha spiegato di avere «prove di intelligence che il flusso illegale di armi verso la Libia è un’attività  che continua». Meno prosaicamente, una fonte qualificata del nostro spionaggio militare dice: «Gheddafi sta lottando per la sua sopravvivenza e dispone di ricchezze immense. Un uomo straordinariamente ricco che lotta per la sua sopravvivenza è disposto a pagare qualsiasi cifra per armi che posso allungargli la vita e tenere il Paese in una condizione di guerra civile prolungata. E’ quello che Gheddafi sta facendo. Il prezzo al mercato nero delle armi leggere – fucili d’assalto, pistole, munizionamento – si è decuplicato. I broker dei Balcani – serbi, albanesi, montenegrini – sono in piena attività  e le rotte adriatiche sono aperte». Perché il mare, anche per un Paese come la Libia che pure può contare su rotte di approvvigionamento attraverso i suoi deserti meridionali (ai confini con Ciad e Sudan) e occidentali (Algeria), resta la via maestra. Al Colonnello, del resto, i Paesi della ex Yugoslavia e l’Albania si presentano come pozzi apparentemente senza fondo. Sono freschi di guerre. Hanno reti di traffico che si sono consolidate nel tempo e che costituiscono il core business di potentissime e violentissime mafie. Sono da sempre il primo mercato delle industrie belliche russa e cinese e dunque collettori privilegiati della merce che in queste settimane può soddisfare la domanda libica: fucili d’assalto russi Ak-47 (i kalashnikov) e cinesi Type 56. Pistole semiautomatiche Makarov calibro 9, visori notturni, mortai leggeri e munizionamento. Soprattutto, nei Balcani, la rotta nera delle armi dispone di almeno un porto sottratto a qualsivoglia controllo degno di questo nome: Bar, nella repubblica del Montenegro. Quel che accade sulle sue banchine, da tempo non è più un mistero per nessuno. Un anno fa, Goran Stanjevic, già  rappresentante dell’Agenzia per gli investimenti esteri del Montenegro, lo ha raccontato ai magistrati della Procura distrettuale antimafia di Bari: «Da quanto so, a Bar ci sono magazzini pieni di armi. Le vendono alla Libia, alla Siria, ai Paesi arabi. E in quei magazzini so anche che lavorano anche tra i 500 e i 600 italiani». Scendendo a sud, lungo le coste albanesi, i porti di Durazzo e Valona, valgono quello di Bar. E le oltre 100 mila tonnellate di armi di fabbricazione cinese ancora mal custodite nei vecchi arsenali di Enver Hoxha, sono un’altra ghiotta fonte di approvvigionamento. Il governo di Tirana ha sempre smentito con forza che il Paese sia sulla rotta delle armi di contrabbando per Tripoli. Ma è un fatto (come ha documentato recentemente il giornale albanese “Shekulli”) che, lo scorso anno, un cargo di 150 mila proiettili da mortaio da 82 millimetri prese il mare per il porto libico di Ras Lanuf. Così come è un fatto che in questi ultimi anni di guerre centro-africane, armi di fabbricazione cinese ritrovate in Sudan o in Ciad siano risultate di provenienza albanese, evidentemente perché triangolate dal Colonnello. I cargo che partono dall’Adriatico – nelle ricostruzioni proposte nei loro rapporti dalle intelligence italiana, francese, inglese, ma anche israeliana – costeggiano la Grecia, talvolta fanno scalo in Turchia, approdano sulla costa occidentale egiziana, dove i carichi vengono introdotti in Libia, lungo la sguarnita frontiera desertica. Spesso sovrapponendosi alle rotte che, da settimane ormai, riforniscono clandestinamente di armi gli insorti di Bengasi. «In questo momento – spiega ancora la fonte della nostra intelligence militare – la porta egiziana è particolarmente permeabile. E, per altro, assorbe non solo le rotte di traffico dai Balcani, ma anche quella che parte dalla Siria». Già , perché Israele, e con lei Washington sono convinte che Damasco non sia fuori dalla partita del contrabbando di armi con il Colonnello. Che la rotta di armi per la Jamahiryia combaci oggi con quella storicamente utilizzata dai siriani per rifornire, sempre via Egitto, i palestinesi della striscia di Gaza. E che l’origine dell’armamento sia iraniano. Per sostenerlo, in queste ultime settimane, le intelligence americana e israeliana hanno incrociato due circostanze. La prima: il passaggio dello stretto di Suez, a fine febbraio, di due navi da guerra iraniane (una fregata e una nave appoggio), ufficialmente invitate a partecipare a esercitazioni congiunte nelle acque territoriali siriane. La seconda: il recente abbordaggio israeliano in acque internazionali del mercantile “Victoria”, con la scoperta di un carico di 2.500 granate di mortaio, 75 mila proiettili e sei missili antinave. «Armi destinate ai militanti palestinesi», ha sostenuto Israele. E tuttavia caricate nel porto siriano di Latakia e dirette in Egitto, la nuova porta del contrabbando verso la guerra di Libia.


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