Israele, punizione collettiva

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La notte dell’11 marzo, due coloni israeliani e tre dei loro sei bambini vengono barbaramente uccisi nel loro letto a Itamar, insediamento ebraico illegale a sud di Nablus, in Cisgiordania. Gli autori del massacro, compiuto con disumana ferocia, sarebbero secondo l’esercito israeliano (Idf) due palestinesi di Awarta, poco distante dalla colonia. Sempre l’Israel Defence Forces, dopo i primi rilievi, ha dichiarato che gli assassini erano presumibilmente due, e la modalità  delle esecuzioni non ha permesso di stabilire la loro appartentenza a un’organizzazione terroristica.

Nonostante questo, una volta denunciata e condannata la brutalità  dell’orribile gesto da parte di tutta la comunità  internazionale, deplorati con forza i festeggiamenti di Hamas a Gaza una volta appresa la notizia dell’eccidio, ciò che è accaduto dopo – taciuto da molti – è l’esempio di come anche lo Stato di Israele abbia obbedito a un’identica logica di sangue e violenza. Presumendo che gli assassini fossero palestinesi, l’Idf ha lanciato un’operazione poliziesca nelle case del vicino villaggio palestinese di Awarta. Decine di case sono state occupate dai militari, centinaia di ‘sospetti’ – innocenti fino alla prova certa della loro colpevolezza – detenuti, oltre venti di loro arrestati, incluso il vice-sindaco di Awarta e due suoi fratelli. Arbitrariamente, sempre sulla base di una presunzione di colpevolezza, decine di case sono state vandalizzate, e gli abitanti del villaggio terrorizzati.I coloni hanno cercato vendetta lanciando pietre contro i palestinesi, mentre il Primo ministro, Benyamin Netanyahu, annunciava la costruzione di cinquecento nuove case come risarcimento per la strage degli innocenti a Itamar.

Ma lo Stato di Israele si è spinto oltre. Sempre forte della presunzione di colpevolezza, l’Idf, nella notte tra mercoledì e giovedì, ha compiuto ulteriori retate, incarcerando più di quaranta persone in una caserma e sottoponendole al test del Dna e alla raccolta delle impronte digitali. Alcuni sono stati rilasciati, molti sono rimasti in custodia e sono ancora sotto interrogatorio.

La logica di Israele è quella delle faide mafiose, della rappresaglia indiscriminata, della ritorsione. La sua reazione razzista travalica la difesa della sicurezza dei suoi cittadini, riportando il Paese alla legge del taglione. L’autorità  di Tel Aviv esercita il diritto alla violenza al pari di coloro che condanna. Con l’aggravante del fatto che si tratta di violenza istituzionale, è attuata mediante la punizione di un’intera comunità  ed è garantita dall’impunità  internazionale. Ma c’è di peggio.

“Perché – è stato chiesto al ministro per le Relazioni Pubbliche, Yuli Edelstein, da un giornalista di Ha’aretz – avete pubblicato le immagini dei bambini morti?”. “Perché era necessario agire in modo insolito – ha risposto Edelstein -. La maggior parte della gente ha avvertito che si è superata una linea rossa, e che sarebbe stato impossibile continuare a vivere normalmente. Così abbiamo deciso di pubblicarle”. Israele ha spesso denunciato la stampa araba di diffondere le immagini di vittime palestinesi in modo strumentale e propagandistico, sostenendo che, oltre a scatenare riprovazione, incitano all’odio e alla violenza. Alla domanda del giornalista su quale fosse la differenza tra Israele e i palestinesi, Edelstein ha risposto così: “C’è una differenza enorme. I palestinesi non hanno problemi nel mostrare tali foto subito dopo la morte, senza chiedere il permesso alle famiglie e senza sfocare i volti. E’ anche vero che in molti casi le foto sono false. E poi, noi non le mostriamo alla televisione nazionale chiedendo a tutti di guardarle. Non ho problemi con un giornalista che decide di non pubblicarle, ma voglio che decida da solo, e se le ricordi sempre. Se non le ricorda, allora non è l’essere umano che pensavo. Noi non siamo come loro. Non siamo come i palestinesi”. Parola di ministro.


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