Tra i carri colpiti dai missili nella strada del deserto dove si decide il futuro

by Editore | 22 Marzo 2011 8:23

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BENGASI – Le truppe di Gheddafi li avevano percorsi tutti arrivando venerdì sera alle porte di Bengasi. Non dico che li avessero interamente occupati e li avessero sotto controllo. Lungo il tragitto, nel deserto, e in alcuni centri abitati, medi e piccoli, c’erano sacche di resistenza e gli insorti davano filo da torcere perfino a Misurata, che non è tanto distante da Tripoli. Lo danno ancora. Si poteva comunque sostenere che gli uomini dei raìs avessero messo le mani sul 70 per cento del territorio che conta. Venerdì sera era così. Poi la decisiva controffensiva degli insorti e il successivo intervento dei Mirage e Rafale francesi, i cui primi bersagli sono stati alcuni mezzi blindati alle porte di Bengasi, hanno ricacciato indietro i gheddafisti (d’ora in poi li chiamerò così) di 50 chilometri. Adesso sulla strada di Tripoli non se ne vedono per più di 200 chilometri, forse 250, fin quasi ad Ajdabiya, loro ultima, contrastata conquista. Si incontrano invece gli uomini armati della Libia libera. La conclusione è che l’operazione Alba dell’Odissea, il cui compito è di garantire una no-fly zone, al fine di impedire all’aviazione gheddafista di imperversare sulla popolazione, è servita e serve non tanto indirettamente d’appoggio agli insorti. I quali hanno cominciato a recuperare il terreno perduto a ovest. E la conseguenza logica. L’intervento deciso dal consiglio di sicurezza non è asettico. Non può esserlo. Per i principi che l’hanno ispirato non è neutrale. Anche se gli hanno formalmente imposto dei limiti. Limiti che alcuni membri della coalizione sono pronti tuttavia a superare, puntando apertamente sull’eliminazione del regime di Gheddafi. Gli aerei della coalizione e i missili della Us Navy riducono drasticamente la logistica dei gheddafisti. Tagliano le loro vie di rifornimento e date le enormi distanze è impossibile per loro conservare tutte le città  che hanno conquistato lungo la costa. Brega, Ras Lanuf, la stessa Sirte (centro della tribù del raìs) e tante altre località  rischiano quindi di cambiare padrone di nuovo. Fino a che le linee di rifornimento, in prossimità  di Tripoli, non si accorceranno. Allora la tenuta dei gheddafisti sarà  più efficace. E, tolta la no-fly zone, potrebbero ricominciare la riconquista e la repressione. Quanto durerà  l’operazione Alba dell’Odissea? L’equivalente intervento in Serbia è durato a lungo, e il regime serbo, quello di Milosevic, è durato ancora di più. La Libia libera e il suo approssimativo esercito potrebbero non avere il tempo di riorganizzarsi sul serio, nonostante la consulenza, l’appoggio di esperti militari (si dice) inglesi, e l’arrivo di armi dall’Egitto. Alba dell’Odissea potrebbe finire prima del crollo dei ghedafisti. Se non accade qualcosa all’interno del bastione in cui è arroccato il Rais. I suoi potrebbero destituirlo o eliminarlo, visto il disperato isolamento, senza via d’uscita. A Bengasi è stata festeggiata la risoluzione dell’Onu. E l’intervento aereo è stato accolto con entusiasmo, ma l’inquietudine sussiste. Molti negozi hanno ancora le saracinesche abbassate, esclusi quelli degli alimentari. E la città  non è più imbandierata come i primi giorni dell’insurrezione. La gente non si fida. Molti commercianti preferiscono essere prudenti, si adeguano alle voci che prospettano punizioni a chi osa riprendere un’attività  normale, nel caso di un ritorno di Gheddafi. Il quale suscita l’angoscia di un fantasma. E’ durato più di quarant’anni e non si sa come e quando sparirà . Saleh Al Gazal è un commerciante. E’ un signore elegante di mezz’età , molto garbato, ma non abbastanza per non ricordarmi che sono un connazionale di Berlusconi, l’uomo del baciamano a Gheddafi. à‰ il presidente del consiglio nazionale della città  di Bengasi. Il suo ufficio, nel palazzo del tribunale, era quello di un giudice. Adesso sembra che vi abbia bivaccato una compagnia di «chabab», di giovani combattenti. Saleh Al Gazal cerca di convincere i negozianti ad aprire i battenti. Ma dice che ci vuole tempo per rassicurare la gente. Il trauma dei giorni scorsi, provocato dai gheddafisti alle porte della città  ha lasciato tracce. Neppure lui crede che la guerra civile finirà  con l’imposizione della no-fly zone. E non riesce ad immaginare la sorte riservata a Gheddafi. «Quando non ci saranno più gli aerei amici resteremo con i nostri cuori e con poche armi». La via Gamal Nasser è nel cuore di Bengasi. La percorro lentamente per vedere se c’è qualche negozio aperto. Tutte le saracinesche sono abbassate e non c’è una sola bandiera appesa alle finestre. Pochi pedoni. Qualche automobile. Il mio nuovo amico, un ex ufficiale di Marina, mi ricorda che proprio in via Gamal Nasser «è cominciata la rivoluzione». Un avvocato, Fathi Turbil, era stato arrestato da Abdullah Senussi, capo dei servizi segreti e cognato di Gheddafi, per la sua insistente attività  di difensore delle famiglie delle vittime del massacro avvenuto nella prigione di Busalim, a Tripoli. A metà  degli anni Novanta un gruppo di islamisti reduci dall’Afghanistan aveva organizzato sulle Montagne Verdi (luogo storico della lotta contro il colonialismo italiano) un gruppo di resistenza al regime dell'”infedele” Gheddafi. Tutti i congiurati erano stati arrestati e poi trucidati (in 1270) nella prigione di Busalim, come rappresaglia in seguito a una rivolta dei detenuti. L’avvocato Fathi Turbil chiedeva la restituzione dei corpi alle famiglie quando è finito a sua volta in prigione. Il 15 febbraio, in Via Gamal Nasser, quattordici suoi colleghi chiedevano la sua liberazione. La partecipazione popolare alla protesta fu sorprendente. E la polizia non esitò a sparare. Due giorni dopo, il 17 febbraio, i sopravvissuti e i familiari del massacro nella prigione di Busalim promossero un’altra protesta, e così, quel 17 febbraio, ispirata dai fatti di Tunisia e di Egitto è esplosa l’insurrezione. Le notizie provenienti da Tunisi e dal Cairo hanno fatto emergere gruppi clandestini, più latenti che operativi, e hanno attizzato la collera della gente fino allora soffocata. Una collera che ha coinvolto reparti dell’esercito e unità  della polizia dalle quale sono arrivate le prime armi. Questa sommaria cronaca, di avvenimenti destinati alla storia nazionale, vuole sottolineare la spontaneità , ed anche la fragilità , della rivoluzione democratica, libica. Il suo attuale capo, più simbolico che reale, presidente del Consiglio nazionale di transizione, è un anziano giudice fino al 21 febbraio ministro di Gheddafi. Mustafa Abdel-Jallil è un personaggio schivo e rispettabile la cui base è a Beida, residenza della monarchia soppressa da Gheddafi nel 1969. Riesce difficile pensare che Mustafa Abdel-Jallil sia in grado di colmare il vuoto di leadership. Al suo fianco, nel consiglio nazionale, che funge da comitato di liberazione da governo provvisorio, alcuni membri hanno rifiutato di rendere pubblica la loro identità  per paura di rappresaglia non si sa mai. Come dice Saleh Al Gazal, nel suo sgangherato ufficio di Bengasi, affacciato sul mare, dopo quarant’anni di Gheddafi ci sono «soprattutto i cuori» per combatterlo. Gli aerei della coalizione dovrebbero lasciare il tempo di creare il resto.

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