Agenzie di rating nel mirino il mondo si ribella alle “pagelle”

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 NEW YORK – Più influenti che mai. Passate indenni nella grande crisi del 2007-2009, che pure era segnata dalle loro “impronte digitali”. Capaci di sconfiggere Barack Obama e il Congresso Usa, sottraendosi alle riforme dei mercati finanziari. Le agenzie di rating sono al centro di una nuova guerra, stavolta contro l’Unione europea. Una sfida che riporta alle cause originarie della grande recessione, e ora si proietta sul futuro immediato dell’economia europea. Uno scontro seguito con attenzione nel mondo intero. In particolare negli Stati Uniti, sede dei colossi mondiali nella gestione di fondi: i “padroni dell’universo” che schiacciando un tasto sui loro schermi Bloomberg decidono la sorte del debito pubblico greco e portoghese, ma anche spagnolo, italiano. L’ultima “provocazione” che ha contribuito a far deflagrare il conflitto è la decisione di Standard&Poor’s di declassare la solvibilità  della Grecia al di sotto dell’Egitto. Un gesto forte, visto che al Cairo comandano i militari in attesa di elezioni che potrebbero anche portare al potere i Fratelli musulmani. Un gesto dalle conseguenze immediate e concrete, pesanti non solo per Atene: il Fondo monetario internazionale calcolò che un precedente declassamento della Grecia (da parte di Fitch, l’8 dicembre 2009) costò 17 punti base di rialzo sui buoni del Tesoro di Atene, ma anche 5 punti di rincaro su quelli dell’Irlanda. Effetto-domino: se un anello fragile dell’eurozona viene percepito come più vicino all’insolvenza, la sfiducia contagia anche i cugini. Di qui la controffensiva lanciata da Bruxelles con una proposta clamorosa: rendere le agenzie di rating legalmente responsabili in caso di giudizio sbagliato. Quelle reagiscono con altrettanta durezza. Alcune minacciano di non dar più voti agli ultimi della classe come Grecia, Portogallo, Irlanda (piuttosto che correre il rischio di una litigiosità  incontrollata nei tribunali). Altre come Moody’s tengono il punto: «Non escludiamo ulteriori tagli ai rating sovrani dei Paesi euro». E’ guerra totale. I “voti” delle agenzie di rating li pagano tutti i contribuenti europei, sotto forma di un rincaro dell’onere di rifinanziamento del debito pubblico. E’ un’ennesima prova dell’immenso potere di queste entità . La loro storia accompagna fin dalle origini lo sviluppo del capitalismo moderno. E’ nel 1909 che il signor John Moody divenne il primo analista finanziario ad assegnare voti alle obbligazioni emesse da una categoria di imprese, le compagnie ferroviarie degli Stati Uniti. Nei decenni successivi la pratica si diffuse, allargandosi a dismisura in parallelo con la crescita e la complessità  dei mercati finanziari. Crac finanziari, scandali, insolvenze, consigliarono di rendere addirittura obbligatorio il rating per alcune categorie di investitori. Fino alla situazione odierna in cui il “triopolio” S&P, Moody’s e Fitch dà  i voti ad ogni sorta di emittenti dei titoli che vengono collocati sui mercati finanziari: buoni del Tesoro, obbligazioni emesse da banche e aziende industriali. Incollando delle sigle fatte di combinazioni di lettere (A, B, Aaa, ecc.) e di segni aritmetici (più, meno) ai debitori che emettono titoli, le agenzie pubblicano pagelle il cui impatto è cruciale. Tutti gli investitori del mondo si fanno in qualche modo guidare da quei voti, prima di decidere se comprare titoli e quale rendimento pretendere in cambio del rischio che si assumono. Certi investitori istituzionali americani – come i fondi pensione e le compagnie assicurative – hanno il divieto di acquistare titoli al di sotto di un certo “voto”. Questo dà  la misura dell’influenza delle pagelle. La minaccia di alcune agenzie di non dare più i voti a Grecia o Portogallo è gravida di conseguenze: quegli Stati verrebbero disertati dai grandi investitori del mondo, rifinanziare il loro debito pubblico diventerebbe ancora più costoso, forse quasi impossibile. Wall Street non ha dubbi, nello schierarsi con le agenzie di rating. Nel centro globale della finanza, l’attacco della Commissione europea viene considerato un classico esempio di malafede. Come un malato febbricitante che se la prende con il termometro e lo spezza, Bruxelles viene accusata di rigettare il verdetto scomodo proprio quando un Paese membro come il Portogallo si rivela incapace di mantenere le sue promesse sulla riduzione del deficit pubblico. Ma prendere per dogma le pagelle delle agenzie è un’ingenuità  imperdonabile. Lo stesso Fondo monetario le accusa di «non avere anticipato le debolezze dei Paesi dell’eurozona»: i loro declassamenti sono ex-post, non insegnano nulla di nuovo. Peggio, nel caso dei debitori privati, le agenzie sono in flagrante conflitto d’interessi, si fanno pagare dagli stessi soggetti a cui danno i voti. Questa fu una delle concause della grande crisi: i voti Aaa si sprecavano, a favore della finanza tossica, i titoli strutturati che contenevano i mutui subprime. Obama e l’allora maggioranza democratica al Congresso tentarono di intervenire su questa collusione. Dopo un lungo braccio di ferro, la lobby delle agenzie di rating stravinse. Nel giugno 2010, la nuova legge americana sui mercati finanziari ha cambiato le regole per quasi tutti, ma non per loro.


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