Ajdabiya è una città  fantasma fucili contro i missili di Gheddafi

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AJDABIYA – I razzi arrivano all’improvviso, un botto sordo, le nuvole nere di fumo che s’innalzano al cielo. Alla porta occidentale di Ajdabiya, due grandi arcate di metallo verde che segnano il check-point più avanzato dei ribelli della Cirenaica in questa città -fantasma, in pochi minuti è il caos. Le grida degli shabab, i ragazzi in armi che formano il grosso di questo esercito malandato, si mescolano alle urla dei pochi soldati professionisti, il sibilo dei razzi katiuscia sparati in risposta dalle camionette si mescola al rumore delle sterzate e ai clacson delle auto, che sgommando fuggono alla volta di Bengasi. I “gheddafiani” sono all’attacco, solo venti o trenta chilometri più in là , sulla strada in mezzo al deserto che porta a Brega. Contro i loro missili Grad (40 km di gittata) non c’è niente da fare, la fuga è l’unica opzione possibile, in attesa che qualche aereo Nato li costringa a loro volta a tornare indietro. In questo lembo di deserto da giorni si combatte così, avanzano gli uni, poi gli altri, la stessa tattica militare, colonne mobili da “colpisci e scappa”. La differenza la fanno le armi, e i Grad garantiscono ai fedeli del Colonnello la supremazia. È una guerra di posizione in cui la posta in palio è una landa desolata e una città  morta come Ajdabiya, le sue strade deserte piene di carcasse di mezzi militari bruciati, le sue case abbandonate. Fino a venerdì funzionava l’ospedale, ieri mattina tutti i feriti sono stati evacuati, destinazione Bengasi. Tutti tranne uno, un soldato lealista catturato e ferito. Il dottor Omar Suleiman ci lascia entrare in sala operatoria, «lo stiamo curando perché è un essere umano», dice, quasi si dovesse giustificare. È la terribile realtà  di una guerra civile feroce, dove anche per i prigionieri spesso il destino è segnato. I ribelli ne avevano catturati due, l’altro è morto, in che modo nessuno sa o vuole spiegarlo. Quello che viene curato ha 31 anni, la tesserina militare dice che viene da Sirte, la città  di Gheddafi, è un soldato regolare, non un mercenario. «Li abbiamo presi a Brega, l’abbiamo riconquistata». Nella hall dell’ospedale, accanto a una scritta in inglese e francese che recita “ecco i crimini di Gheddafi”, un barbuto miliziano racconta eccitato l’impresa, arricchendo la storia con slogan contro il raìs che ha tradito la Libia. Di lì a mezz’ora capiremo che la presa di Brega da parte dei ribelli è una delle tante leggende, notizie non verificate, propaganda, che in questa atipica guerra nel deserto sono pane quotidiano. Il primo segnale è a un check-point intermedio. Un gruppo di soldati sta discutendo animatamente, la nostra macchina viene bloccata. Quello che appare il capo sentenzia: «I giornalisti non possono passare»; un altro ci invita ad andare avanti, «stiamo attaccando, prenderemo Brega». La realtà  è molto diversa, basta arrivare alla porta occidentale per capire che aria tira. Una dozzina di macchine incolonnate sta rientrando alla svelta, oltre il posto di blocco nessuno può andare avanti. Nessuno sa bene cosa fare, non si capisce chi decide, un pick-up parte all’impazzata mentre si sentono degli spari. Su un ciglio della strada è stato bloccato un bus piuttosto lussuoso, almeno per queste parti. È di una società  petrolifera che opera nelle zone controllate dai “gheddafiani”, e gli shabab, fucili alla mano, sono pronti ad assaltarlo. Qualcuno grida che all’interno ci sono dei “traditori”, ma la notizia si rivela falsa. Sono tutti con i ribelli anche dentro il pullman, probabilmente lo hanno rubato e sono scappati. La tensione però è palpabile, un anziano imam prega sotto l’arcata di metallo, ma solo un paio di soldati lo stanno a sentire. Un centinaio di metri più avanti, seduti su una camionetta con lanciarazzi, due barbuti miliziani fanno la faccia feroce, gridano qualcosa, non vogliono giornalisti tra i piedi. Hanno l’aria da mujahiddin: che da queste parti ci siano degli “stranieri” è qualcosa di più di una voce. Retrocediamo. Su un palo di metallo sono stati attaccati tre fogli, in tutti e tre le stesse parole in arabo, inglese e francese: «Il popolo appoggia la coalizione internazionale». Un ragazzotto in mimetica e fucile lo indica facendo il segno di vittoria, poi mostra attaccata dietro la sua camionetta la bandiera francese accanto a quella dei ribelli. «Vogliamo più raid, la Nato deve bombardare sempre». «Mandateci più armi, ce ne servono di pesanti, ai traditori ci pensiamo noi», incalza un altro. Qualcuno racconta che per ingannare gli aerei dell’Alleanza Atlantica i “gheddafiani” usano la bandiera dei ribelli, solo al contrario, con il nero (e non il rosso) nella parte alta. Ad Ajdabiya le vittime del “fuoco amico” non hanno lasciato traccia, se c’è un rimprovero è che i caccia della Nato non fanno abbastanza. Venerdì a Bengasi, durante i funerali dei morti per mano occidentale, la gente sventolava bandiere francesi e americane. Poco dopo mezzogiorno la tensione esplode con le sirene delle ambulanze che sfrecciano oltre la porta occidentale e i primi botti dei razzi. Brega è lontana e ancora saldamente in mano ai lealisti del raìs, i “gheddafiani” sono alle porte di Ajdabiya.


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