America, la guerra civile mai finita E torna la «Capanna dello zio Tom»
NEW YORK — La Uncle Tom’s Cabin Marathon è iniziata ieri alle 8 di mattina alla Modjeska Monteith Simkins House di Columbia, luogo sacro del movimento per i diritti civili in South Carolina, e si è conclusa verso la mezzanotte, quando, dopo un tour de force di 544 pagine l’ultimo degli oltre 100 partecipanti ha letto l’ultima riga della Capanna dello zio Tom, il romanzo anti-schiavista scritto nel 1852 da Harriet Beecher Stowe, considerato il vero catalizzatore della Guerra di secessione americana. La maratona organizzata dallo scrittore afro-americano Kevin Gray è coincisa con il 150o anniversario dell’inizio della guerra tra le giacche blu Nordiste e quelle grigie Sudiste. Anniversario che in molti stati del Sud ha dato vita a «commemorazioni» ufficiali dal tono nostalgico per celebrare «la causa perduta» . Una causa che gli eredi dei Dixies continuano a ritenere non solo «giusta» ma anche «realizzabile» . A 150 anni dalla Battaglia di Fort Sumter che il 12 aprile 1861 dette inizio alle ostilità , il dilemma su quale fosse realmente questa «causa» continua a spaccare in due l’America. «Stiamo ancora combattendo la guerra civile» , scrive il settimanale Time in un lungo articolo di copertina che ritrae Abramo Lincoln in lacrime di fronte a questa «battaglia senza fine» , oggi ideologica e non più militare, che continua a dividere il Paese. Alla domanda «Cos’ha provocato la guerra civile?» , Google fornisce oltre 20 mila pagine di risposte tra di loro contraddittorie che vanno dall’ «aggressione degli Unionisti» , (detti anche yankees) accusati di aver «invaso il Sud indipendente» alle «tasse troppo alte» , «dallo scontro tra cultura agraria e industriale» alla «lotta di classe marxista» . Nel suo primo discorso inaugurale, alcune settimane prima dell’inizio delle ostilità , Lincoln era stato molto chiaro. «Una sezione del nostro paese crede che la schiavitù sia giusta, e debba essere estesa— disse — mentre l’altra ritiene che sia sbagliata, e non dovrebbe essere estesa. Questa è l’unica controversia sostanziale» . Un secolo e mezzo più tardi, gli storici americani sono unanimemente d’accordo con lui. «Tutto ebbe origine da lì» , spiega James McPherson, docente a Princeton e autore di Battle Cry of Freedom, considerato il più autorevole saggio in materia. «Il vero problema — mette in guardia lo storico di Yale David Blight— è che l’americano della strada si ostina a negare che a scatenare la guerra sia stata la schiavitù» . Proprio questa rimozione collettiva tra gli stati del Sud, ha ispirato iniziative come la Maratona di zio Tom. «Il revisionismo storico è devastante — spiega Kevin Gray, discendente di schiavi del Sud Carolina— soprattutto se si pensa ai moderni politici quali Rick Perry, Scott Walker e Haley Barbour che continuano a ispirarsi alla “causa perduta”incoraggiando questo ripugnante negazionismo» . L’anno scorso il Governatore della Virginia Bob McDonnell ha emanato un proclama di due pagine per celebrare il Confederate History Month senza una sola parola sulla schiavitù. «L’odio del Tea Party nei confronti del Governo centrale riecheggia la lotta della Confederazione contro l’Unione “autoritaria”accusata di stritolare le libertà individuali» , teorizza Gray. La cultura popolare è in parte responsabile di ciò che Time definisce «il dramma di un paese dove la riconciliazione è venuta a un prezzo carissimo: l’amnesia collettiva» . «Nei primi cento anni dopo la Guerra Civile storici, scrittori e registi hanno ipnotizzato le masse per lenire i ricordi post-traumatici dei sopravvissuti e dei loro discendenti — scrive il settimanale — in una guerra che ha ucciso oltre 625.000 americani: più delle due ultime Guerre Mondiali messe insieme» . Basti pensare a La nascita di una nazione di D. W. Griffith, che nel 1915 ridava lustro alla «causa perduta» glorificando il Ku Klux Klan. Ventiquattro anni più tardi, Via col vento mitizzava il Sud antebellum, attaccando l’arrivismo dei vincitori yankee dopo l’amara sconfitta dei Ribelli. La ferita è ancora aperta nell’America di Barack Obama, dove l’astio nei confronti del primo Presidente afro-americano della storia ha assunto tinte decisamente razziste.
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