Applausi, lacrime e l’ira del sopravvissuto “Vivo ancora in un incubo, io non perdono”

by Editore | 16 Aprile 2011 7:23

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TORINO – L’unica faccia viva è rimasta la sua. Bruciata, violata dal fuoco, deformata dal dolore perché un processo è sempre la ripetizione di un delitto anche quando «questa sentenza fa finalmente giustizia». Gli altri volti, quelli di Rosario, Bruno, Antonio, Rocco, Angelo e Giuseppe stanno immobili sul banco dei familiari, infilati da spose e madri nella fessura del tavolo. Loro non possono applaudire, non possono gridare «grazie Guariniello», come fanno commossi i loro parenti. Ma a modo loro partecipano a questa strana festa. Sfoggiano un assurdo sorriso perché spuntano da foto scattate durante le vacanze o alle feste di compleanno. Sorridono anche dalle magliette con la scritta «giustizia». Delle otto facce che quella notte chiacchieravano tra di loro alla linea 5, l’unica che può ancora parlare è quella di Antonio Boccuzzi, il ragazzo con le bende e la coda di cavallo che all’alba del 6 dicembre 2007 ha raccontato all’Italia come si muore nella fabbrica dell’acciaio. Questa sera Antonio è lì, piegato sul banco, con gli occhi arrossati, a guardare la corte mentre il presidente legge il lungo dispositivo, quello che ha deciso che i vertici della Thyssen hanno commesso un omicidio volontario, cioè «sono degli assassini», come traduce la madre di Rosario prima che gli uomini del 118 la soccorrano. Nell’aula dove scatta l’applauso ci sono tutti, i vivi e i morti in fotografia. Tutti tranne i colpevoli. I colpevoli non sono venuti questa sera. Non era facile. Con la tensione che si respirava e il rischio di essere assolti di fronte a chi ha perso un figlio. Nessuno se l’è sentita. Nemmeno chi ha avuto in questi anni un lontano rapporto con i suoi ex dipendenti. Come Cosimo Cafueri, il responsabile della sicurezza. Si può avere pietà  per uno come lui? Si può perdonarlo? Forse è presto. Lo dicono gli occhi dei fratelli, gli sguardi delle mogli, le mascelle strette del padre di Bruno Santino, l’uomo che oggi è arrivato in giacca e cravatta ma ha addosso la stessa rabbia di tre anni fa, quando trascinava il suo dolore sul selciato delle vie del centro di Torino portando in corteo l’immagine del figlio. Chi ha trascorso tre anni nella spola tra il cimitero e il tribunale fa fatica a perdonare. «Forse è troppo presto», ripete Boccuzzi. È ancora troppo presto per staccarsi da quella notte. Sulla panca del tribunale Antonio confessa: «Ci ho messo tre mesi, sai, prima di abbandonare l’albero». Un piccolo albero, proprio davanti all’ingresso dell’acciaieria, un albero che dopo l’incidente è fiorito con le immagini dei morti e i messaggi dei vivi, immagini e messaggi che il tempo e la pioggia ora hanno dilavato. Perché andavi all’albero Antonio? «Per accendermi una sigaretta con loro e continuare le chiacchiere di quella notte. Ci andavo tutte le mattine. Arrivavo presto, mi facevo il segno della croce, mi sedevo lì e riprendevo la conversazione. Perché, vedi, Giuseppe, fai bene a tornare a studiare. Adesso che questa fabbrica la chiudono, che trasferiscono tutto a Terni, puoi riprendere in mano i libri. Sei ancora giovane, un diploma può fare comodo. In fondo tutti noi abbiamo l’età  per cambiare vita. Hai ragione Angelo, avere dei figli piccoli ci lega qui a Torino. Certo che non puoi andare a Terni e lasciare la moglie e i bambini. Ma qualcosa si può trovare. Guarda Rosario, vuol mettere su un bar con il fratello di Bruno. Loro si stanno inventando qualcosa. Chi può prevedere che cosa ci riserva il futuro? Passavo così le mie mattine, a fare capannello davanti all’albero. Fin quando non passava Cafueri e mi diceva: “Boccuzzi, che cosa fai ancora lì? Non ti fa bene, staccati dall’albero”. Lo diceva con buone intenzioni. Ma io non riesco ancora oggi a perdonarlo. Non riesco a spiegarmi perché quella notte quella conversazione si è interrotta, perché mi sono chinato proprio mentre lo sputo di fuoco mi passava sulla testa. Così ancora adesso sono qui a cercare di riprendere il filo di un discorso normale». Forse quel filo è sul marciapiede, tra gli striscioni dell’associazione che unisce i familiari e gli amici delle vittime sul lavoro in Italia. Il filo è davanti al cancello del Palazzo di giustizia. Il filo è nel capannello che si forma per tutto il giorno aspettando la sentenza. Ex colleghi che l’incidente e la vita hanno sparso per l’Italia. C’è Piero Barbetta. Lo chiamano «il ragazzo del 118» perché fu lui quella notte a chiamare i soccorsi. La sua angoscia è rimasta registrata, immortalata su Youtube: «Correte, è successo un incendio, ci sono tre quattro ragazzi bruciati alla Thyssen». Dietro la sua voce quella delle vittime. Boccuzzi la ricorda bene: «Mi sembra che fosse Giuseppe. Gridava “Non voglio morire”». Ma oggi il capannello non parla solo della tragedia. Parla dei momenti felici, un gruppo di ragazzi che ricorda le partite di pallone, le gite. E le lunghe ore al turno di notte «quando Angelo portava i panini con la marmellata fatta dalla moglie. Ti ricordi quella volta che ne aveva uno solo e lo abbiamo diviso in quattro?». Attimi di normalità . Bisogna pur vivere. Anche da quella notte bisogna uscire. La sentenza aiuta? «Era tre anni che la aspettavamo», si sfoga Maria, la mamma di Rosario. «Nessuno ci può restituire i nostri figli», dice «ma adesso che li hanno condannati non avrò pace fino a quando non li vedo davvero andare in galera». La vera sentenza è quella di Antonio: «Dopo questa sera, nessuno può dire che è stata colpa del destino. Da questa sera il destino non esiste».

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