Condannati all’isolamento

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Questa è dunque la ricetta dello statista: la divisione dell’Italia dall’Europa. Divisione: la parola è sorta spontanea sulle labbra del premier non certo per caso. Quella parola aleggia da tempo nella realtà  della vita del Paese. Nello spazio dei pochi giorni trascorsi dalla festa dei 150 anni dell’Italia unita il Paese che si era faticosamente ritrovato all’ombra del tricolore si presenta oggi lacerato come non mai, diviso non solo fra Nord e Sud ma fra una regione e l’altra, fra una borgata e l’altra. Così, a festa finita, la questione dell’unità  ci appare oggi come un problema serio e grave. La festa dell’Unità  d’Italia poteva essere un’occasione importante per ripensare alla storia e alle prospettive del Paese. Ma alla festa si è associata una cattiva compagna di strada: la retorica dell’unità . Chiamiamo retorica dell’unità  ogni lettura del passato e del presente che ignora le fratture, esalta il processo di unificazione come un moto armonioso e concorde e tenta di cancellare differenze e divisioni col silenzio, con la proposta di una storia ufficiale corretta “ad usum delphini” e con l’eliminazione delle tracce istituzionali e simboliche delle fratture profonde del Paese. “Io amo l’Italia” è una di quelle espressioni della neolingua berlusconiana che hanno fatto breccia nel nostro parlare, così come la teatralità  dei gesti patriottici di ministri che scimmiottano l’inevitabile modello americano quando si mettono la mano sul cuore davanti alla bandiera. Ma sono anni ormai che la retorica dell’unità  si accompagna in Italia a una revisione o piuttosto alla decisa espurgazione della storia documentata del Paese diviso e feroce che abbiamo alle spalle. In questo contesto bisogna certamente accogliere e dare credito alla giusta preoccupazione di chi invita a guardare a ciò che unisce e a mettere la sordina a ciò che divide. È un invito sacrosanto se si tratta di unirci per affrontare i problemi e le fragilità  che minano la società  italiana e la allontanano dall’ideale che ebbero in mente i patrioti del Risorgimento e i combattenti della libertà  repubblicana contro il nazifascismo. Ma non può diventare una autocensura unilaterale mentre il nemico della vera unità  guadagna posizioni su posizioni. Davanti alla lacerazione del tessuto del Paese abbassare i toni rischia di valere come una rinunzia a difendere i diritti fondamentali dell’uomo e del cittadino. E questi diritti si difendono partendo dalla condizione di chi diritti non ne ha: il dannato della terra, la figura dai tanti nomi – il rifugiato, l’immigrato, il clandestino. Chiediamoci quale immagine e quale esperienza dell’Italia abbiano oggi i profughi che, sopravvissuti a tragedie senza nome, riescono con enormi rischi e difficoltà  a toccare le coste meridionali e insulari del Paese. Queste donne, questi uomini, non hanno storia per noi, sono i dannati della terra, sono il popolo senza nome dei sommersi. Ma, se non diventano letteralmente tali annegando nel Mediterraneo, se sopravvivono e se riescono a fare come quegli emigranti italiani che trovarono in altri Paesi società  più libere e giuste, un giorno saranno loro stessi o i loro figli che scriveranno la storia vera del nostro tempo, quella che vivono e di cui oggi sono le vittime. E non sarà  la storia di un’Italia unita. Sballottati da una regione all’altra, sempre però al di sotto di quella linea gotica che nel nome porta la memoria di antiche e recentissime fratture del Paese (la lingua è spesso un inesorabile quanto inascoltato documento storico), accolti dalla canea di folle incoraggiate dalla politica di una forza politica razzista e xenofoba che mira al disfacimento del Paese, sono i testimoni autentici dello stato di salute dell’Italia di oggi. Se fossimo capaci di guardare le cose dal loro punto di vista capiremmo forse quanto l’unità  oggi sia qualcosa di sideralmente lontano dalla realtà  quotidiana oltre che dalla prospettiva futura del Paese. E non è certo un caso se quei profughi non vogliono restare in Italia e si dirigono verso altri Paesi, verso quell’Europa da cui oggi ci si vorrebbe addirittura dividere. Quella parola “divisione” affiorata oggi nelle esternazioni del premier è da prendere sul serio: è grazie al suo governo, grazie a un ministro degli Esteri che si occupa di Antigua e a quello degli Interni che pensa alla Padania, oggi l’Italia non solo non ha più una politica mediterranea, ma non ha da tempo nessun credito e nessun peso nella politica europea. Ci sarà  modo di risalire da questo abisso? Forse: ma certo non con questi uomini: non con una maggioranza sedicente di governo che passa le sue giornate in Parlamento affannandosi a regalare a ogni costo una nipotina all’esiliato signore dell’Egitto.


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