Disperati in fuga dalla dittatura dell’ex «colonia primogenita»

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Un altro mondo, quando Asmara aveva più semafori di Roma ed eravamo noi ad approdare armi e bagagli e ferrovie su quelle coste già  rese cristiane da certi mercanti siriani che vi avevano fatto naufragio. Altro mondo, altro «potere seduttivo» dei naufraghi: dopo aver dato al nostro esercito i temibili guerrieri Ascari, l’Eritrea nel ’ 41 diventa britannica e in seguito provincia autonoma della vicina odiata Etiopia con la benedizione dell’Onu. L’imperatore Haile Selassie se la annette nel 1962, innescando una guerra che durerà  32 anni. L’esercito etiopico, appoggiato sia dagli americani che dai sovietici, ha la peggio. Per sfinimento Addis Abeba concede un referendum che nel 1993 porta all’indipendenza dell’ex «colonia primogenita» con una percentuale (99,8%di sì) che oggi diremmo «sud-sudanese» . Un Paese nuovo, un leader come Issaias Afwerki che Bill Clinton innalzava a «leader del Rinascimento africano» . Due decenni dopo Afwerki è sempre al potere, ma nessuno parla più di Rinascimento: l’Eritrea è una dittatura monopartitica paragonata alla Nord Corea, 5 milioni di abitanti (due terzi sopravvivono grazie agli aiuti alimentari), zero libertà , oppositori perseguitati, non un giornale o una radio che non siano di Stato, 300 dollari il reddito pro-capite annuo. Una nuova guerra con l’Etiopia per questioni di confine ha prodotto migliaia di morti, un armistizio datato 2000 e una «proxy war» nella vicina Somalia. Non a caso eritrei e somali si ritrovano uniti nella fuga verso l’Europa: chi scappa da una dittatura e chi da un «Paese fallito» in perenne guerra civile. Asmara ha armato i clan dei guerriglieri islamici alla conquista di Mogadiscio per ostacolare la rivale Etiopia (che aveva mandato una forza militare per sostenere una parvenza di governo sotto l’egida dell’Onu). Per questo Afwerki si è preso le (blande) sanzioni delle Nazioni Unite. Mentre i suoi cittadini cercano la via dell’esilio. La strada passa attraverso la Libia di Gheddafi. Un viaggio che può durare anni. Nell’estate 2009 un gruppo di 255 eritrei è bloccato dalle vedette libiche. Finiscono nella prigione di Al Braq, nel Sud del Paese. Vita di stenti fino a un’amnistia che li rimette in marcia. Bloccata la via per Lampedusa, ottanta approdano in Egitto e lì si avventurano lungo le piste tremende del Sinai, destinazione Israele. Finiscono nella rete delle tribù beduine. Ostaggi. Richiesta di riscatto: migliaia di euro ciascuno, donne violentate, uomini alla catena. Dicembre 2010: un Mosè eritreo missionario in Italia, don Mussie Zerai, lancia un appello per salvarli. Presto le rivoluzioni in Medio Oriente seppelliscono le notizie sui profughi del Sinai. Molti sono ancora prigionieri. Ma intanto Gheddafi ha barcollato e si è riaperta la via d’acqua, che fa meno paura del deserto. Ma sui barconi per Lampedusa non ci sono mosè capaci di dividere il mare.


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