France Télécom: l’onda lunga della paura

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Si è dato fuoco, a 57 anni, nel parcheggio della sede di France Télécom a Mérignac, vicino a Bordeaux. Uno dei suoi quattro figli si è detto certo che “è tutta colpa del lavoro”. Era funzionario da trent’anni, delegato sindacale della Cfdt e préventeur, cioè incaricato a controllare le condizioni di lavoro, igiene e sicurezza dell’azienda. Come decine di migliaia di suoi colleghi, anche lui negli ultimi anni aveva dovuto accettare diversi cambi di mansione, uno ogni tre anni, imposti dai vecchi vertici di France Télécom. Come altri 59 dipendenti prima di lui, non ha retto.

Dietro ogni tragedia, si scopre un’esperienza professionale negata, fatta di umiliazioni e di continue pressioni psicologiche. “Ci avevano assicurato che le cose sarebbero cambiate – accusa un suo collega – forse non sono proprio cambiate”. Anche l’attuale presidente e direttore generale di France Télécom ha dovuto ammettere che il nuovo corso fatica a farsi largo: “Di fronte a questi fatti nessun obiettivo si può considerare raggiunto”. Quando l’anno scorso è stato nominato alla guida di France Télécom, Stéphane Richard – ex capo di gabinetto del ministero dell’Economia e manager pubblico – ha promesso di “umanizzare” le condizioni di lavoro e ha elaborato un nuovo contratto sociale: 900 milioni di euro, da stanziare tra il 2010 e il 2015, per attuare misure di prevenzione, rinnovare gli uffici, favorire la convivialità  e organizzare corsi antistress.

Richard ha ricevuto un’eredità  molto pesante: i suoi predecessori, Didier Lombard e il numero due Louis-Pierre Wenes, erano stati costretti a lasciare il posto di comando tra il 2009 e il 2010, quando l’ondata dei suicidi aveva raggiunto le prime pagine dei giornali. Erano stati loro, Lombard e Wenes, a introdurre nel 2006 un piano di ristrutturazione feroce chiamato “Plan next”.

Dopo la privatizzazione a metà  degli anni Novanta, la quotazione in Borsa, la liberalizzazione del sistema delle telecomunicazioni, l’acquisizione di marchi stranieri (la britannica Orange), France Télécom doveva restare competitiva sul mercato, battere la concorrenza, ripianare debiti da 110 miliardi di euro e garantire agli azionisti i dividendi già  concordati. Doveva liberarsi di una struttura arcaica e poco flessibile, un lascito dell’epoca delle Poste e Telecomunicazioni statali. Su centomila dipendenti, due su tre erano funzionari pubblici. L’azienda (di cui lo Stato rimaneva azionista principale con il 26 per cento delle quote) doveva trovare un modo per sopprimere 22mila posti di lavoro, ma senza licenziare, perché il contratto dei funzionari lo vieta.

Così ha elaborato una strategia scientifica, che si è collaudata in poco tempo, nota come “management par la peur”, gestione tramite la paura. Il meccanismo ce lo avevano spiegato gli stessi dipendenti di France Télécom: un’umanità  dolente e piena di dignità .

Quadri intermedi che non potevano sopportare l’idea di fare i tagli al personale a cui erano costretti, pur sapendo che avrebbero guadagnato premi e ricompense proprio in base ai tagli. Persone che ogni settimana, per mesi, ricevevano dall’azienda un’email con l’elenco dei posti liberi in altri settori della pubblica amministrazione (ospedali, poste, uffici statali). Un chiaro invito ad andarsene. Gente che si era dovuta trasferire pur di mantenere il posto, perché la vecchia sede era stata chiusa o accorpata. Le chiamano “mobilités volontaires”. Ma di volontario, solo il nome. Tecnici per trent’anni in squadra riparazioni finiti in un call-center a vendere servizi, prodotti, abbonamenti ai clienti. Sorvegliati, ascoltati, cronometrati, monitorati, obbligati a raggiungere obbiettivi individuali e di squadra che esasperano la competizione. Una donna si era sentita dire “lei non vale niente”, perché non aveva raggiunto il numero di telefonate stabilito, dunque non era stata “performante”.

I sociologi si interrogavano, i medici del lavoro (interni all’azienda) si sentivano per lo più impotenti. Didier Lombard parlava di “moda dei suicidi”. Negli stessi giorni, alla fine del 2009, sotto la pressione mediatica, l’Osservatorio sullo stress di France Télécom distribuiva un questionario a tutti i dipendenti. Una domanda su tutte: “Siete fieri di appartenere al gruppo?”. “In passato”: 96 per cento. “Attualmente”: 39 per cento.

È in questo contesto che Stéphane Richard ha annunciato un processo di umanizzazione. Ma è difficile ricreare condizioni umane, se i profitti per gli azionisti – 3 miliardi e 700 milioni di euro all’anno – devono rimanere invariati.


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