Fughe e manganellate Scoppia la guerriglia nel campo di Manduria

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MANDURIA (Taranto) — L’unico ad accorgersi delle labbra rosse di sangue è uno studente di medicina con gli occhialini da intellettuale. Marco Massafra entra nel prato, si avvicina a una montagna d’uomo che si chiama Ziad Soully. Il tunisino è in ginocchio sull’erba. Ansima, respira a fatica. Piange dal dolore. Su di lui incombono una decina di persone e il finanziere che lo ha rincorso con la mano sul calcio della pistola. Per non farsi sbattere la fondina sulla coscia destra, ma quei venti metri di inseguimento sono stati un attimo sospeso di angoscia, con la gente che gridava «non farlo, non farlo» . La Beretta d’ordinanza è rimasta al suo posto. Il finanziere, con il fiatone per la corsa, incombe sull’uomo. «Chitemmurt… ma dove vai? In Francia non vi vogliono, resta qui che è meglio» . Si china. «Dai amico, torniamo dentro, ti aiuto ad alzarti» . Marco lo ferma. Guardi che questo sta male. Il tunisino aveva provato a scappare l’altra notte, ma nel buio si era schiantato su un masso. Gli mette le mani sul fianco sinistro. Urla, sputa saliva rossastra. «Secondo me è un versamento pleurico, si è rotto una costola che gli ha bucato un polmone» . C’è un attimo di silenzio. «Me lo lasci, lo porto in paese, all’ospedale. Almeno gli danno un Ibruprofene, un Aulin, per non fargli sentire il dolore. Glielo riporto indietro, lo giuro» . Il finanziere e Marco si guardano fissi negli occhi. L’aspirante medico studia alla Sapienza, è tornato a casa per il fine settimana. Ha un’aria pulita, la faccia da ragazzo perbene. Gli trema un po’ la voce. «Lo giuro» ripete. Il finanziere non dice nulla. Si volta e torna sui suoi passi, all’ingresso del centro di accoglienza. La tendopoli di Manduria è ormai un calderone dove ribollono gesti individuali di umanità , degli abitanti e degli uomini in divisa, che si perdono nel caos collettivo. In una sola notte la struttura di accoglienza ha assunto un aspetto inquietante. Intorno al campo sono sorti pali metallici con le punte rivolte all’interno, che dovranno sostenere una cancellata più massiccia. L’esodo collettivo di venerdì, con 700 migranti che correvano per la campagna, ha prodotto un ripensamento. Le strade sono percorse dai blindati dei reparti mobili di Bari, Reggio Calabria, Bologna, 500 agenti mandati a presidiare piccole stazioni di paese per riportare indietro i migranti che camminano lungo i binari. Al mattino scappano in duecento, piccoli gruppi che vengono inseguiti, questa è l’unica novità . Si presenta la senatrice Adriana Poli Bortone, chiede di visitare il centro. Accesso negato, ordine della prefettura. Antonio Calcagni, responsabile dell’ufficio immigrazione della questura di Taranto, si scusa. «C’è un po’ di tensione» . Due ore più tardi, il funzionario si tiene la faccia tra le mani, coperta di sangue. Un tunisino di 16 anni ha minacciato di darsi fuoco nella tendopoli, la polizia lo ha fermato mentre fuggiva, lo ha riportato dentro. Lui ha cercato ancora di uscire. I migranti si sono ammassati all’ingresso principale mentre entrava il camion dei vigili del fuoco, Calcagni è stato colpito dal cancello che si è aperto per la pressione. Litigano tra loro i manifestanti che presidiano la strada. Si accapigliano nella tendopoli, tunisini che protestano per la carenza di cibo e servizi igienici. Ogni tanto volano sassi contro gli agenti. La contabilità  degli ospiti è un ossimoro. Il vicequestore incaricato di tenere i rapporti con la stampa si getta nell’impresa. «Dovrebbero essere 1.602, su 2.300» . Mentre parla, si vedono altri fuggiaschi che corrono per i campi. Rappresentare le forze dell’ordine dove regna il disordine è un compito improbo. Lui almeno ci prova. «Tutto a posto, le fughe sono fisiologiche, non patologiche» . Marco e altri ragazzi di Manduria sono tornati al paese. Hanno fondato un piccolo comitato che distribuisce vestiti e cibo ai migranti in libera uscita, hanno indotto a più miti consigli i concittadini che facevano le ronde. Vorrebbero fare la loro piccola manifestazione in piazza Garibaldi, hanno raccolto le richieste che vengono dall’interno del centro. Ma sono schiacciati ai margini dalle truppe vendoliane giunte da Bari, Taranto e Brindisi. Più esperte in queste cose, leste ad ottenere il permesso per un comizio del governatore. Siccome c’è sempre qualcuno più furbo degli altri, quando Vendola ha finito di parlare i Cobas raggiungono la tendopoli, si mettono a scuotere la rete metallica, incitano chi sta dentro a scavalcare. Quello è il punto più brutto e disagiato del sito, dove i lavori non sono ancora finiti e l’esasperazione degli ospiti regna sovrana. I tunisini cominciano a scalare la recinzione, che cede di schianto. Si apre un varco largo cinquanta metri. Accorrono tutti, una nuova fuoriuscita collettiva. Almeno 500 migranti si riversano sulla strada. Nel parapiglia due ragazzi di 17 e 18 anni finiscono all’ospedale. Uno di loro ha un occhio tumefatto e il setto nasale fratturato. Sostengono di essere stati picchiati con i manganelli, le forze dell’ordine negano di avere usato la forza. Marco, con aria rassegnata, raccoglie sulla sua auto tre fuggiaschi all’ingresso di Manduria. Chiedono di andare in stazione. Lui sospira, alle prese con un problema di coscienza, in questa storia dove il confine tra legalità  e illegalità  non è chiaro. Li fa scendere un centinaio di metri prima del traguardo. La tendopoli intanto è nuovamente vuota. Il gioco dell’oca ricomincia dalla casella di partenza. La polizia non può fare nulla, se non aspettare la notte per ricominciare a raccogliere i tunisini per strada. Come svuotare il mare con un secchiello. L’esasperazione e il nervosismo sono sempre più evidenti, da una parte e dall’altra. E queste sono solo giornate di attesa, verrà  il momento in cui qualcuno dovrà  dire ai migranti che devono tornare in Tunisia. Dottore, quanti ne sono rimasti? Lo sguardo del vicequestore, stravolto dalla fatica, è eloquente. Allarga le braccia. E chi lo sa. Tutto a posto, e niente in ordine. Marco Imarisio (ha collaborato Nazareno Dinoi) LAMPEDUSA— I loro satellitari sono ormai muti ma amici e parenti non smettono di telefonare all’alto commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr) perché non si interrompano le ricerche. Una disperata richiesta di aiuto per due barconi con a bordo 68 e 330 immigrati somali ed eritrei, tra cui donne e bimbi, partiti dalla Libia il 25 e il 22 marzo e mai arrivati a Lampedusa. L’allarme è stato rilanciato dal portavoce dell’Unhcr. «Non dobbiamo mollare — dice Laura Boldrini — l’esperienza insegna che imbarcazioni alla deriva sono state soccorse anche a 20 giorni dalla partenza» . Il comando delle capitanerie di porto ha diramato un allerta a navi e pescherecci. L’ultima traccia lasciata dai satellitari è stata localizzata a 35 miglia.


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