I medici non devono operare i pazienti senza speranza

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ROMA — C’è un confine da non oltrepassare. Dove tutti si devono fermare. I familiari, con le loro esili aspettative. Il malato, pronto a subire l’intervento pur di ritagliare un altro pezzettino di vita. E soprattutto il chirurgo. Ad ordinarglielo è una sentenza della Cassazione che stabilisce in modo perentorio un principio. Gli interventi chirurgici il cui esito è senza speranza non devono essere tentati anche se esiste il consenso informato da parte del paziente. Dunque, scrivono i giudici, i medici che in queste situazioni vanno avanti agiscono «in dispregio al codice deontologico che fa divieto di trattamenti che costituiscono forme di inutile accanimento diagnostico terapeutico» . Condannati tre professionisti dell’ospedale San Giovanni di Roma, già  noti per il loro atteggiamento di apertura di fronte a casi giudicati inoperabili da altri colleghi. Situazioni limite, quando in gioco ci sono tumori in stadio avanzato e una manciata di mesi di sopravvivenza. Allora si pone una scelta. Andare avanti o mettere un freno? Il primario Cristiano Huscher e i suoi assistenti Andrea Mereu e Carmine Napolitano risposero di sì quando fecero entrare in sala operatoria una donna di 44 anni, mamma di due bambine, con un tumore al pancreas già  in fase metastatica. L’endoscopia aveva mostrato quanto la malattia fosse ormai diffusa. Ogni cura sarebbe stata vana. Era il 2001. La signora Gina morì al San Giovanni la notte dell’ 11 dicembre per un’emorragia, poche ore dopo aver subito l’asportazione delle ovaie e parte del tumore. Nel tentativo di rianimarla le fratturarono sterno e due costole. I tre chirurghi sono stati condannati in appello per omicidio colposo a un anno di reclusione (Huscher) e 10 mesi i suoi colleghi. Il reato è andato in prescrizione perché sono passati più di 7 anni. Ma La Corte suprema, IV sezione penale, ha confermato la loro colpevolezza disponendo il risarcimento della famiglia. Una sentenza che respinge duramente ogni forma di accanimento chirurgico: «Nel caso concreto date le condizioni indiscusse e indiscutibili della paziente, alla quale restavano pochi mesi di vita e come tale andava ritenuta inoperabile non era possibile fondatamente attendersi un beneficio per la salute e o un miglioramento della qualità  di vita» . E questo malgrado la donna avesse espresso il suo consenso, determinata a tentare l’impossibile pur di guadagnare giorni da dedicare alle figlie. Per il sottosegretario alla Salute Eugenia Roccella il punto critico è il consenso informato: «È necessario, ma non sufficiente. Comincia ad esserci un’idea dell’autodeterminazione che può finire per squilibrare l’alleanza terapeutica medico paziente» . Secondo Rocco Bellantone, segretario della società  italiana di chirurgia, sono urgenti «leggi specifiche sull’atto medico. Assurdo limitarsi al codice Rocco» . Perplesso Pietro Forestieri, presidente del Collegio italiano dei chirurghi: «È difficile stabilire se l’intervento è senza speranza perché dipende anche dall’abilità  dell’operatore» . Amedeo Bianco, presidente della Federazione degli Ordini dei medici (Fnomceo) non si sbilancia: «Una cura va valutata anche rispetto all’obiettivo del medico che potrebbe avere scopi palliativi giusti o prevenire conseguenze drammatiche per la qualità  di vita del paziente» . «Può essere difficile decidere di fermarsi — spiega Ignazio Marino, presidente della commissione d’inchiesta sul Servizio sanitario— ma a volte bisogna farlo. Questo non significa che la temerarietà  degli interventi è condannabile di per sé: se ci si fosse fermati al primo trapianto di fegato fallito, oggi non potremmo salvare decine di migliaia di vite» .


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