Il parto di Vivian tra le urla dei disperati “Quella carretta rischiava di capovolgersi”

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LAMPEDUSA – Toccano terra e scoprono di essere vivi. Uno s’inginocchia e prega il suo Dio. A Lampedusa sbarca in massa un’umanità  africana, la carne da macello di Gheddafi per i suoi ricatti. Barcollano, sembrano ubriachi. Di paura e di felicità . Sono tutti in fila indiana. Cento. Duecento. Cinquecento. Settecento. Ottocento quasi. Mai così tanti ce n’erano stati sopra un peschereccio approdato su quest’isola. Mai tutti in una volta li avevamo visti pigiati nella fetida stiva di un barcone che solo per buona sorte è scivolato in porto con il suo carico di congolesi e ghanesi, di senegalesi e ivoriani, nigeriani, liberiani, sudanesi. Tutti neri. Uomini e donne e bambini. Tutti tramortiti da due giorni e due notti nel Mediterraneo e tutti in trance per avercela fatta. Ce l’ha fatta il ragazzino con i pantaloni laceri che saltella come se fosse in discoteca. Ce l’ha fatta la signora con addosso il suo cappotto più elegante, lungo e rosso vermiglio con il collo di pelliccia. Ce l’hanno fatta l’altra donna che tiene fra le braccia la sua bellissima bimba con le treccine, quello alto e smilzo con la sacca dell’Inter, quello basso senza una scarpa, la moglie che bacia il marito, l’altro marito che accarezza la moglie. La più incredula di tutti loro forse è Vivian, che quando l’isola frontiera era ancora all’orizzonte aveva cominciato a tremare e a urlare dal dolore perché lì, su quel legno fradicio, stava per partorire. «C’è una donna incinta… si sono rotte le acque», grida via radio un ufficiale della Guardia Costiera. Il barcone fa in tempo a entrare in rada e Vivian Ekmek, ventitré anni, nigeriana, il marito rimasto a Tripoli, fa in tempo a far nascere la sua bambina al poliambulatorio di Lampedusa. Alle 16,01 Lampedusa ha un’altra figlia. Qui dove le donne prendono l’elicottero per far nascere i loro bimbi lontano, qui continuano a nascere i figli del popolo che viene dal mare. L’ultima pesa tre chili e trecento grammi. E ancora non ha un nome. Stanno tornando. Sono tornati. In tanti, tantissimi. L’aveva annunciato il vento che era calato, l’aveva annunciato anche il rais libico che avrebbe rovesciato un’infinità  di neri sull’Europa che lo bombarda. Quindicimila, dicono. I primi mille erano pronti a salpare all’alba di domenica, li avevano radunati intorno ad Al Zwara ma poi sul peschereccio non ce ne stavano più di 760: 680 uomini, 63 donne, 17 bambini. Rotta verso l’Italia del barcone più carico di disperati mai arrivato a Lampedusa, il record era di 545, i tunisini di quattro settimane fa che si erano accampati sulla collina della vergogna. Rotta verso la Sicilia, le spiagge agrigentine di Licata. «Erano diretti là  quando li abbiamo avvistati», racconta il capitano di vascello Vittorio Alessandro che era in mare con i suoi uomini della Guardia costiera per pilotare il peschereccio verso la salvezza. I radar li avevano intercettati a 40 miglia da Lampedusa, in acque internazionali. A 35 miglia l’abbordaggio, poi il lentissimo e inquieto viaggio verso l’isola. Il barcone dondolava senza onde, a ogni virata sembrava che dovesse capovolgersi. «Il momento più pericoloso, eravamo tutti con il fiato sospeso», dice il comandante Cosimo Nicastro. Il barcone tagliava il mare a una velocità  di 7 nodi, se non l’avessero avvistato subito sarebbe arrivato a Licata almeno dieci o dodici ore dopo. Con un po’ di moribondi e forse anche di morti. Con Vivian che forse avrebbe perso sua figlia. Con tante altre donne incinta che non avrebbero resistito ad un’altra notte di traversata. E invece in un primo pomeriggio di sole violento la chiglia sporca di ruggine del barcone sfila fra il molo e gli scivoli di cemento del porto di Lampedusa, i medici di Senza Frontiere sulla banchina, i poliziotti, i volontari, quelli della Croce Rossa, gli abitanti dell’isola che si precipitano a presenziare all’ultima invasione. Dal barcone cominciano a scendere. Uno dopo l’altro. Acqua e merendine per tutti, quattro barelle per i più debilitati, le ambulanze che partono, una decina di ragazzi sotto choc, altri disidratati, altri ancora assiderati. E tutti storditi. Ammassati sul piazzale del porto, comincia la conta. Settecentosessanta neri di pomeriggio e altri cinquanta tunisini di mattina. Arriva al porto anche il sindaco Bernardino De Rubeis: «Ce l’aspettavamo questo sbarco, chiamerò Berlusconi per spiegarli che quello che diceva Gheddafi sta avvenendo». Quello che nessuno può ancora esattamente dire è ciò che accadrà  fra l’Africa e Lampedusa nelle prossime ore e nei prossimi giorni. Il vento di maestrale è sceso nella notte ma da domani comincerà  ad alzarsi uno scirocco «molto tirato», 25 nodi, cinquanta all’ora. I profughi sbarcati raccontano che un altro grande barcone ha lasciato la costa libica ventiquattro ore dopo il loro peschereccio. Lo scirocco incrocerà  di traverso quel barcone quando gli altri disperati si troveranno proprio in mezzo, fra Tripoli e Lampedusa. C’è molta gente che ha cominciato a pregare per loro, da questa e dall’altra parte del mare.


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