Il simbolismo del terrore

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Anche perché usano, radicalizzandoli, i medesimi codici simbolici adottati da Hamas per legittimarsi politicamente e religiosamente. I salafiti radicali accusano Hamas di non voler fondare un Emirato sorretto dal pieno rispetto dei principi islamici; gli imputano, soprattutto, un realismo politico nei confronti di Israele che si traduce, di fatto, nell’accettazione dello status quo geopolitico. I radicali ritengono, invece, che Gaza debba essere retrovia e principale fronte dello scontro con il “nemico sionista”. Nei confronti di questi gruppi, Hamas ha usato un doppio registro. Nettamente ostile, sino alla repressione, nei confronti di quelli filoqaedisti: lo si è visto nel conflitto aperto con Jaysh al-Umma, il cui leader Abu Hafs è stato arrestato, o ancor più con Jund Ansar Allah, culminato nei sanguinosi scontri nella moschea di Rafah nel 2009; più accomodante, nel caso essi facciano riferimento a qualche potente clan palestinese: è il caso di Jaysh al-islam, strettamente intrecciato con i Doghmush, e coinvolto nel sequestro del soldato di Tsahal, Shalit. A questa galassia, che comprende anche gruppi come Tawhid al Jihad, così come a alcuni settori dell’ala militare di Hamas dalla quale sono fuoriusciti dissidenti filoqaedisti, non piace nemmeno il recente, faticoso, tentativo di riavvicinamento tra Hamas e l’Anp, favorito anche dall’onda lunga delle rivolte arabe. Tanto meno è gradita la tregua concordata da Hamas con le diverse fazioni della Striscia dopo i raid israeliani seguiti al lancio di missili verso il suo territorio. È in questo contesto che avviene il sequestro di Arrigoni, mostrato bendato e sanguinolento in un video subito messo in Rete. Nel filmato che riprende l’attivista italiano, il “governo apostata” di Haniyeh è accusato dalla Brigata Mohammed Bin Moslama, di non applicare rigorosamente la sharia. I rapitori minacciano di ucciderlo se Hamas non rilascerà  entro questa mattina i salafiti radicali detenuti nelle carceri di Gaza, tra i quali lo sceicco Abu Walid al Muqdasi, nome di battaglia di Husham al-Suaidani, arrestato lo scorso mese. Un tentativo evidente di unificare, con quest’azione, la composita galassia dei “duri e puri”. Un incubo, per Hamas, che rivendica il monopolio dello schieramento islamista e non tollera fazioni o gruppi che, con il loro spontaneismo, rischiano di mettere in gioco la sua strategia e le sue alleanze politiche internazionali. A Arrigoni, che ha scelto da tempo di restare a Gaza, unico italiano presente anche durate l’operazione militare israeliana “Piombo fuso”, non certo ostile a Hamas, vengono attribuite responsabilità  soggettive e oggettive: quella di portare nelle case palestinesi la “corruzione morale”, riferimento a stili di vita ritenuti “deprecabili”; quello di appartenere a uno Stato “infedele”, l’Italia, coinvolto militarmente nell’oppressione del mondo islamico. Su di lui “ricadono”, dunque, accuse che ne fanno, agli occhi dell’estremismo filoqaedista, un ostaggio perfetto. Non c’è dubbio che Hamas, o almeno la sua ala politica, cercherà  di liberarlo: la sua immagine, in primis quella di una forza capace di controllare il territorio, ne uscirebbe altrimenti compromessa. Ma in questa partita potrebbe essere giocata una battaglia per l’egemonia ideologica e militare il cui risultato non sarà  a somma zero.


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