La pace impoverita dall’uranio nei Tomahawk

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L’obiettivo dichiarato dell’attacco alla Libia è «proteggere i civili». Ci si attenderebbe, dunque, quantomeno l’uso di armi «pulite», osia prive di «effetti collaterali» a lungo termine. Ma soltanto la prima sera di guerra – hanno spiegato gli attaccanti – sono stati sparati 112 missili Tomahawk. Non è un’arma nuova. Anzi, viene usata per la prima volta in Kosovo nel ’99 (poi anche in Iraq e Afghanistan). Lo si sa perché sono stati ritrovati i frammenti al suolo, mentre i comandi Nato lo negavano.
Il perché è noto da tempo: il nostro ministero della difesa, per quella guerra, elaborò «un decalogo distribuito a tutti» i soldati italiani, con il seguente ordine: «evitate ogni mezzo o materiale… che possa essere stato colpito da munizioni contenenti uranio impoverito o missili da crociera Tomahawk». Ciò malgrado, parecchi soldati (e soprattutto gli abitanti civili) furono poi vittime di tumori e leucemie.
Massimo Zucchetti è docente di impianti nucleari al Politecnico di Torino, si «occupa di radioprotezione da un ventennio e di uranio impoverito dal ’99», e parlerà  oggi dal palco di piazza Navone. Già  nelle prime ore dell’attacco ha prodotto un calcolo sulla probabile incidenza di questi missili sulla popolazione libica (e i giornalisti) oggi presente nelle zone bombardate. Nessuno sa quanti missili verranno scagliati prima della fine delle ostilità , quindi ha ipotizzato un numero tondo (1.000) per facilitare successivi aggiornamenti. Non ha potuto naturalmente tenere conto dei proiettili anticarro che vengono tutti i giorni sparati dagli aerei. Ha considerato «soltanto l’esposizione per una inalazione di un’ora dovuta al semplice rilascio del materiale», senza altri fattori «che potrebbero far crescere l’esposizione». Insomma: un campione quasi «ottimistico».
Si sa che il DU (depleted uranium) è denso, pesante, poco costoso (2 dollari al kg), difficilmente smaltibile e quindi perfetto per la guerra. Unisce alla straordinaria capacità  di penetrazione nelle corazze (si «autoaffila», mantenendo sempre la forma appuntita) quelle piroforiche: a contatto con l’aria – dopo aver «sfondato» – esplode in una nuvola di fuoco a 5.000 gradi centigradi. Una volta polverizzato, viene inalato con la respirazione; solo il 60% viene trattenuto nei polmoni; le particelle sono in parte sono solubili, in parte no (in un territorio arido si ha una lunga sospensione al suolo e nuove inalazioni); una certa quota si accumula nelle ossa. E crea un «effetto cocktail», sommando la tossicità  chimica con quella radiologica.
Ma quanto DU c’è a bordo di un Tomahawk? Dipende dalla funzione. Se deve solo esplodere, può essercene anche solo 3 chili (nelle ali); in quelli che devono «sfondare» una grande resistenza (come il bunker di Gheddafi), anche 400 chili. Zucchetti ha perciò preparato «due scenari» diversi. Quello più favorevole ipotizza che i missili siano stati tutti «leggeri», l’altro una totalità  di «pesanti»; insomma, tra i 3.000 e i 400.000 chili di uranio sparso su un territorio ristretto (la Libia abitata e militarizzata è assai piccola).
A questo punto non restava che fare i conti e vedere – in base a modelli statistici altamente affidabili, elaborati nel corso di venti anni di studi «sul campo» – quale sia la «dose collettiva» (CEDE) cui vengono esposte le persone; e di qui trarre il numero di neoplasie che è lecito attandersi nel tempo in cui il DU resta «pericoloso»: 70 anni.
Nel «caso migliore» (missili con soli 3 kg di DU), il numero è relativamente piccolo: 50 tumori in più, «statisticamente trascurabile» ma «non un’assoluzione di questa pratica, una sua accettazione, o meno che mai con una asserzione di scarsa rilevanza o addirittura di innocuità ». Nel worst case, invece, i tumori attesi volano a 6.200.
Ai tumori, va ricordato, vanno aggiunte le incalcolabili – ma visibilissime – malformazioni genetiche che si verificano a distanza anche elevata di tempo in ogni zona colpita da irradiamento nucleare. Per chi è forte di stomaco, esistono decine di fotografie in Rete, facilmente rintracciabili con la chiave di ricerca «uranio impoverito».
Si potrebbe obiettare, cinicamente, che in fondo non è certo quanto uranio porta a bordo ognuno di quei missili. Ma proprio questa è la domanda cui dovrebbero rispondere tutti i governi dell’«alleanza dei volenterosi». Date agli scienziati civili informazioni precise; e faranno calcoli esatti al millesimo. O ne avete paura?


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