La paura evocata dal senatùr

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C’è qualcosa d’altro e di più profondo che affiora nel drastico rifiuto leghista di fronte al modo di condursi del presidente del Consiglio. Non è solo tattica. Non è solo insofferenza di un alleato che ritiene la misura ormai colma, messo a dura prova dal moltiplicarsi degli scandali e dal logorarsi di un’azione di governo sempre più asfittica e ossessivamente concentrata sulla sola salvezza personale del premier. È una certa idea dell’Italia – dei suoi compiti, del suo ruolo e della sua posizione nella scena europea e internazionale – insomma è un’immagine complessiva del Paese e del suo destino, quella che la Lega sta cercando in questi giorni di interpretare e di imporre con una forza e una chiarezza mai prima esibita. In realtà  il disastroso dilettantismo di Berlusconi nella conduzione degli affari internazionali dell’Italia, il suo rivelarsi ogni giorno di più un leader senza autorevolezza e senza prestigio, alla mercé dei suoi interlocutori americani ed europei, sta lasciando uno spazio enorme a un atteggiamento certamente presente nel Paese, e che costituisce quel che definirei il fondo opaco dell’ideologia leghista, quel che potrebbe definirsi “lo stato leghista dell’anima”: un grumo di sentimenti che viene da lontano, con una genealogia che risale agli anni dell’egemonia democristiana su una parte consistente del Paese. Sarà  utile provare a farne l’anatomia. C’è in primo luogo un rifiuto diffuso della guerra – di ogni guerra – e della connessa esibizione di ogni dispositivo militare offensivo: missili, portaerei, bombardieri e quant’altro. Una specie di onda d’emotività  negativa forte e radicata, che, per fortuna, va ben oltre l’insediamento sociale leghista, ma cui in questo momento è la Lega quasi da sola a dar voce. Si tratta di un pezzo significativo della nostra cultura popolare, ed è difficile non vedervi un riflesso positivo, qualcosa che somiglia molto a una maturità  raggiunta attraverso la memoria di sofferenze ed esperienze che sono entrate ormai nel dna della nostra storia. Ma su questo primo strato mentale se ne distende un altro, più ristretto, più pericoloso, e più ridotto entro i confini tradizionali della presenza leghista. Ed è quello proprio di un’Italia che si sente immedicabilmente piccola, provinciale, che si appaga della sua marginalità , e se ne fa una ragione e un’alibi. Un’Italia perennemente spaventata, scettica su di sé e sui suoi alleati, con un piede perennemente fuori dell’Europa, in fuga dalle sue responsabilità , cinica molto prima che pacifista. Voglia di rifugio nel cortile di casa, di isolamento, di indifferenza al mondo. Questo intreccio di pacifismo e di chiusura, di giusta ripulsa per la guerra e di miope sottrarsi al proprio ruolo e ai propri impegni, di maturità  e di inadeguatezza, andrebbe sciolto attraverso un’azione di governo all’altezza del compito e del momento, e la messa in campo di una cultura politica capace di orientare l’opinione pubblica in un passaggio certamente delicato e difficile. In grado di proporre un’analisi su quello che sta accadendo di fronte a noi nel Mediterraneo, di legare difesa degli interessi nazionali e valorizzazione delle idealità  democratiche, di mostrare come il rifiuto della guerra, che deve sempre rimanere il punto di riferimento di ogni nostra scelta, possa non confliggere con un uso limitato e temporalmente circoscritto della forza, in un quadro di cooperazione internazionale e di chiarezza di obiettivi. Nella totale mancanza di tutto questo – nella totale mancanza di un governo appena degno di questo nome – è solo la confusione a prevalere. E può persino accadere che la grande bandiera della pace sia sollevata solo per potercisi nascondere.


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