La seconda vita di chi ha perso tutto

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ishinomaki – L’eccesso della natura e la miseria degli uomini: l’amplesso cieco che alle 14.46 di venerdì 11 marzo 2011 ha generato la fine di un’era, non solo del Giappone. Nella città  che non esiste più è scomparsa anche l’anonima ragazza con i capelli e gli stivali rossi, rimasta impressa nelle prime immagini assetate di morte e di bellezza. Il vano viaggio attraverso sedici luoghi mutati, iniziato per chiederle chi fosse allora e chi sia diventata poi, penetra dunque nello spazio che essa ha lasciato, salvando la forza vuota della sua più vasta rappresentazione. Tornare nel Nordest del Tohoku, risalendo di spiaggia in obitorio, permette di rivedere il profilo spietato, per così dire interiore, della contemporaneità  sul pianeta. Esplora però anche il nucleo di una nazione nuova, sospesa fra il tramonto di una generazione vecchia che si congeda, confondendo i propri errori con la fatalità , e l’aurora di un popolo giovane che inizia a riconoscersi, unito dalla necessità  sadica di vivere. Terra e mare hanno ridefinito qui il loro territorio, respingendo gli umani oltre il confine che non possono varcare. Ma le scosse più violente e più costose della storia non si sono limitate a ristabilire un ordine idrogeologico tra i viventi. Hanno scatenato il conflitto, represso da oltre vent’anni, tra i due elementi anagrafici della popolazione: e i giapponesi ora sanno che senza una drammatica mutazione, sancita da un passaggio delle consegne, anche una ripresa indesiderata si rivelerà  impossibile. Cinque giorni nell’epicentro del terremoto, prolungato dal bruciore delle radiazioni atomiche e dal violento assestamento di giovedì notte, non bastano per intuire il destino delle persone vive e delle città  morte. Sono però sufficienti per descrivere l’aspetto di un paesaggio ad ogni risveglio sconosciuto e i sentimenti di una massa privata di ogni certezza: chi nell’oceano ha perso la faccia e chi nel fango ha ritrovato l’onore. Cinquecento chilometri di costa, qualche ora a nord di una delle capitali più ricche e moderne della terra, restano deserti, invasi da montagne di macerie espulse e di cadaveri inghiottiti, impregnati da un odore salino di scolo marcito. In vaste zone sono tornati elettricità , telefono, un po’ di acqua ufficialmente potabile e qualcosa di commestibile. Non si muore più di freddo e a decine hanno contratto il tifo. Si incontra qualcuno lavato da poco, coperto con abiti adatti. Individui soli scavano in distese di immondizia, cercano corpi e oggetti con le mani, piantano una bandiera rossa sul luogo dove presumono sorgesse la propria casa. Sommozzatori e soldati chiusi in tute antiatomiche frugano nella melma fredda, sperando di imbattersi in un arto. Ora è possibile incrociare un sorriso e perfino il cedimento a una speranza. Questa colpa, assieme all’ignominia di essersi fatti raggiungere dal Pacifico, definisce il significato nuovo della normalità . Un mese dopo, le vittime dello tsunami hanno accettato di esistere al minimo, senza seccare connazionali e stranieri, in attesa di capire come sarà  la loro seconda vita. Nei centri di raccolta, tra Minami-soma a sud, nella prefettura di Fukushima, e Yamadamachi a nord, in quella di Iwate, duecentomila senza tetto accorciano la notte con una doppia litania. Il racconto della propria salvezza e dei defunti altrui. I numeri incalcolabili dell’epopea collettiva: 28 mila vittime, 600 mila sfollati, 30 milioni di tonnellate di detriti, 200 miliardi di euro di danni, Pil nazionale tra meno 3% e meno 5%, dieci anni per ricostruire. Narrare la catastrofe dona un sollievo misterioso, guarisce la fatica di fughe senza fine, ma contribuisce a motivare la scelta della maggioranza: andare via. La scossa del nono grado ha riplasmato l’Honshu: l’isola s’è orientata 2,4 metri più a est e decine di villaggi sono sprofondati cinque metri sotto il livello del mare. L’onda alta 34 metri, i tremori e gli allarmi continui, si apprestano però a ridistribuire la popolazione sul territorio, riportandola all’interno e in quota, come secoli fa. Chi si sente vivo, pure se orgogliosamente reduce da tre o quattro tsunami, resta sconvolto dal terrore della marea, o dal presentimento di ricostruire per la prossima apocalisse. «Muraglie frangiflutti e cemento antisismico non bastano – dice Yuko Shida, panettiere di Ofunato – Nessuno può più imbrogliarci». Anche la fede nel mito dei propri primati, il complesso dell’invincibilità , risultano demoliti. Decine di gruppi di ecosfollati, fino a 300 persone, vagano oggi nell’entroterra alla ricerca di vecchi paesi rurali spopolati, da occupare. Altre carovane di profughi alimentari, in fuga da case intatte ma vuote di cibo, si spostano di rifugio in rifugio seguendo le consegne dei pasti, lontano dal mare. L’esodo dalla costa tradisce la rivoluzione antropologica in atto: un popolo di pescatori, insediato sull’oceano, cerca di recuperare la tradizione agraria, ritornando contadino e di montagna. «Sale e lagune – dice Michiyo Takahashi, orticoltore di Minami Sanriku – hanno distrutto i campi del litorale. Per almeno cinque anni non si potrà  piantare, per un decennio i prodotti saranno invendibili. E la pesca è una bomba pronta ad esplodere». E’ l’ultimo scandalo della lezione sprecata di Fukushima. Migliaia di tonnellate di acqua radioattiva scaricata nel mare, pesce e pioggia tossici, senza confini. Cesio, iodio e plutonio si aggiungono a equipaggi, flotte e porti distrutti. Nessuno, nemmeno nella Tokyo snob e fatalista, si fida più del pescato. La tragedia dell’acqua contaminata è una vergogna globale incredibilmente accettata. Prelude alla fine della civiltà  peschereccia del Nordest e ad uno sconvolgimento alimentare, ma conclude in particolare la parabola della classe dirigente nazionale. Burocrazia preistorica, politica corrotta ed economia cieca sono l’altra faccia dell’educata deferenza giapponese. Un mese dopo lo tsunami, ai superstiti è però chiara una realtà : la catastrofe era evitabile e prevedibile, il potere si è confermato in ritardo su ogni crisi e inadeguato ai problemi. «Quando tirano l’imperatore fuori dal sarcofago – dice Ryuiu Yamamoto, fabbricante di tatami a Taro – significa che siamo nei guai». In verità  dice «il vecchio» e «siamo nella merda» e la rara scurrilità  sottolinea la rabbia ed il disprezzo nuovi delle vittime verso una nomenclatura concentrata sugli interessi finanziari, piuttosto che sulle condizioni delle persone. I reattori di Fukushima sono esplosi perché s’è tentato di tutelare gli investimenti privati nella centrale. La radioattività  resta avvolta nella reticenza per prolungare la crisi del governo. Centinaia di sopravvissuti al sisma sono morti perché leggi-truffa hanno impedito per giorni di distribuire viveri, medicine e coperte, di percorrere strade, di ridurre le scorte di carburante, di scongiurare black-out, o di atterrare agli elicotteri. «Oggi esibiamo ordine e organizzazione – dice Hiromi Onodera, madre di una bambina di tre mesi uccisa dalla sete a Nobiru – ma fino a ieri s’è badato a stabilizzare la Borsa. Forse è il momento di smetterla di inchinarsi e di chiedere scusa». Il sacrificio dei kamikaze di Fukushima commuove il Paese e rincuora il cinismo del mondo. Ma a Onagawa 360 sfollati vivono tra i reattori di una centrale in crisi ufficialmente spenta, convinti che le turbine protette dal cemento armato siano il solo luogo sicuro della nazione. A Minamisoma 25 mila abitanti sono rimasti tappati in casa per quattro settimane, isolati e dimenticati senza viveri, come appestati, salvati infine dall’appello del sindaco su Youtube. Dentro i trenta chilometri off-limits di Fukushima la popolazione è abbandonata, chiusa nelle abitazioni sbarrate dall’esterno, esposta alle esalazioni atomiche e circondata da 2453 cadaveri putrefatti che nessuno vuole recuperare. I forni crematori contano migliaia di salme in attesa e anche in queste ore, per la prima volta, si seppelliscono corpi, o gli oggetti prediletti degli scomparsi, dentro fosse comuni. A Kesennuma, dove è crollata una casa su tre, esplode l’emergenza economica che lungo tutta la costa umilia chi non è morto. Molte assicurazioni non coprivano il rischio-tsunami, i risarcimenti non arrivano, gli stipendi sono finiti assieme al lavoro. Restano i mutui da pagare su edifici, auto e barche spazzati via. Isamu Hashiba, falegname di Onagawa, scappa con la famiglia dal centro di raccolta. Quello che hanno, è buttato in una carriola. «Devo alla banca ottantamila yen al mese – dice – ma non li ho». Nessuno piange più e chi resta sulle distese di melma, nei quartieri cancellati di città  non recuperabili, avverte che di fronte a queste nuove emergenze ignorate il problema di trovare quindicimila dispersi, spostare montagne di macerie e costruire cinquantamila prefabbricati in tre mesi, non rappresenta una priorità . La missione impossibile ora è salvare una comunità  che si considera morta e che è decisa a partire per luoghi casuali e lontani, come se l’ignoto fosse un surrogato dell’oblìo. Entra nella storia come il «Grande sisma Tohoku del Nordest» e lascia 400 mila individui che non sanno come e dove vivere, migliaia di orfani e di ragazzi tentati di non credere che i sogni sono più veri degli incubi, un popolo minacciato da una tecnologia ingovernabile che non osa mettere in discussione, dopo che l’ha sterminato nel 1945 e riscattato nel dopoguerra. Sostando dentro sedici ex località , i nuovi non-luoghi del Giappone sparito, tra irrisolte difficoltà  sovrumane e imperdonabili omissioni, dopo un mese non si può però ignorare la forza umana della volontà  di risorgere, sostenuta da una disciplina d’acciaio. E’ uno spirito diffuso, impressionante per la sua assurdità , fondato sulla solidarietà , che distingue la gente semplice dai potenti che fingono di governarla. A Ishinomaki la ragazza dai capelli rossi ha lasciato i suoi stivali rossi dove tutti la ricordiamo, davanti allo scheletro della soglia di casa. Viene da pensare che qui i ciliegi torneranno a fiorire presto, forse già  domani e per lunghi anni e che la felicità  non è perduta. Le vittime vogliono sconfiggere l’oceano e il terremoto e questa resistenza alle avversità  può essere incomprensibile, ma rappresenta un dono che infrange la disperazione di giorni quieti e vani. Tsukaito Ito, 84 anni, ultima geisha di Kamaishi, dice che «lo tsunami è una bocca spalancata, che inghiotte tutto ma che poi si chiude». Alle 14.46 dell’11 marzo si stava imbiancando per lo spettacolo nel ryotei Saiwairo. E’ stata salvata da un ammiratore. Si è ricordata che è l’unica, nella prefettura di Iwate, a ricordare la canzone che si dedicava ai giovani samurai in partenza per la battaglia. La signora Tsukaito, raccolta nel fango per la grazia della sua storia, qui resta una bellezza ricercata. Suonerà  ancora lo “shamizen” e tornerà  a danzare, come sempre, fino alla fine.


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Iran e Libia. Ecco chi ci minaccia davvero: le bufale dell’informazione manipolata. Se ne sono accorti anche i maggiori giornali americani, non i nostri.

E i talebani? Twittano… in inglese

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Avevano bannato la televisione, la musica e il cinema, perché segno dell’immoralità . Oggi, a distanza di 15 anni, twittano. Segno che i tempi cambiano anche per gli studenti più puri del Corano. Quando tra il 1996 e il 2001 i talebani spadroneggiavano in Afghanistan, quasi tutti i prodotti elettronici erano banditi. Fotografare era fuorilegge e chi veniva scoperto in possesso di una videocamera si meritava frustrate in pubblico. Ma poi, con l’arrivo della coalizione internazionale, qualcosa è cambiato.

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