L’exit strategy del tiranno in fuga dai suoi crimini

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Gli Stati Uniti ospitarono lo Scià  fuggito dall’Iran ma giurarono di non ripetere mai più una simile esperienza In genere i dittatori al potere accumulano fortune che poi, anche quando sono caduti in disgrazia sfuggono a qualsiasi sequestro Per convincere Muammar Gheddafi all’esilio potrebbe volerci una specie di “riforma della Giustizia” ad personam su scala mondiale. Lo scoglio più grosso nelle trattative pare sia la pretesa di immunità  da processi da parte del Tribunale internazionale dell’Aja. Il “Pm” internazionale Luis Moreno-Ocampo deciderà  da qui a maggio se incriminarlo per stragi di civili. Non si tratta di un’iniziativa dei giudici: così gli chiede niente meno che una risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’Onu, la numero 1970 approvata lo scorso 26 febbraio. C’è chi sostiene che questo complica le cose perché “non gli lascia una via d’uscita”. Esiliarlo sarebbe certo meno “costoso” per tutti, soprattutto in termini di vite umane. Il problema però è trovargli una destinazione che gli garantisca di non finire sotto processo. È evidente che i suoi ex amici italiani lo accoglierebbero a braccia aperte, lui, la famiglia e anche tutte le guardie del corpo amazzoni. Non per lui, diamine, per evitare ulteriore spargimenti di sangue. Ma l’Italia è stata nel 1998 co-fondatrice della Corte internazionale. E la cosa sarebbe particolarmente imbarazzante, anche per un paese i cui governanti non ostentano molto rispetto per i giudici (e se è per quello nemmeno molto per i trattati internazionali, visto che quello, se non sbaglio ancora in vigore, con Gheddafi prevedeva addirittura cooperazione militare e di intelligence). Pare che ci stiamo dando da fare per convincere gli Africani a tenerselo. L’Uganda ha fatto sapere che lo ospiterebbe, ma anche loro sono firmatari dello Statuto di Roma. Lo è pure il vicino Ciad, assieme ad altri 31 paesi africani. In Nigeria nessuno vuol più andare in esilio da quando hanno consegnato alla Corte internazionale l’ex dittatore liberiano Charles Taylor per i massacri perpetrati in Sierra Leone. Come molti suoi colleghi aveva un debole per le belle donne, che corteggiava a suon di conflict diamonds. Ma Naomi Campbell ha testimoniato contro di lui. Il processo, iniziato nel 2008, non è finito. Tra i non firmatari ci sarebbero Sudan, Marocco, Algeria e gli Emirati. Ma, come dire, non è per loro esattamente il momento, i loro governanti ha ben altro cui pensare: come evitare di fare la stessa fine. C’è anche l’Arabia saudita, ospitalissima con dittatori esiliati. Lì aveva riparato dopo aver fatto tappa in Libia, ed era vissuto tranquillamente per un ventennio, il macellaio “cannibale” dell’Uganda Idi Amin. E lì avevano accolto l’ex presidente tunisino Ben Ali, che però ha pensato bene di togliere il disturbo morendo quasi subito. Ma non è detto che Abdullah ibn-Saud abbia voglia di accogliere proprio Gheddafi che qualche anno fa aveva cercato di farlo assassinare. L’esilio è una soluzione formidabile in alternativa ai bagni di sangue. Gli antichi ateniesi avevano inventato per i loro leader politici l’ostracismo, l’esilio per votazione diretta. Non si sa benissimo come funzionasse. Ma l’ipotesi avanzata recentemente dagli studiosi è che nascesse come modo per evitare che le élite si scannassero tra fazioni avverse e ammazzassero o cacciassero dalla polis tutti i membri del partito avverso. L’esilio nascerebbe così assieme alla democrazia. Era una perfetta valvola di sfogo per evitare il peggio. Nella Roma repubblicana l’esilio era volontario, per evitare condanne a morte, e per un po’ servì ad evitare guerre civili e proscrizioni. Ero a Teheran quando lo Scià  decise di partire, nel 1979. Molti dei suoi lo scongiuravano invece di ordinare che si sparasse sui manifestanti, compresi gli immensi cortei di donne in chador. Volò in Egitto, poi in Marocco, alle Bahamas, in Messico, e infine, “per ragioni mediche” negli Stati Uniti. Credo che da allora a Washington abbiano deciso: mai più. A qualcuno va male: Noriega sta ancora scontando una condanna a 40 anni per riciclaggio di denaro in un penitenziario federale, quando scadrà  lo aspettano le corti francesi. L’elicottero su cui fuggivano i Ceausescu fu costretto ad atterrare a Targoviste e li misero subito di fronte al plotone d’esecuzione. Pol Pot, che non volevano più neanche in Cina, morì di malaria nella sua branda nella giungla cambogiana. Ma il colonnello Bokassa, che teneva in frigo i cadaveri degli scolaretti massacrati, riuscì a vivere tranquillo in esilio in Costa d’Avorio prima di tornare ad essere processato nella Repubblica centrafricana ed essere condannato a soli 7 anni; era già  libero quando morì nel 1996, e gli fecero pure funerali di Stato. Slobodan Milosevic morì mentre lo processavano all’Aja, ma il generale Mladic è ancora uccel di bosco. Fossero riusciti ad esiliare Saddam Hussein, forse questi si sarebbe salvato l’osso del collo. Tutti questi tipi in genere hanno accumulato, negli anni in cui sono stati al potere, fortune tali da sopravvivere a qualsiasi sequestro. La vedova Ben Ali aveva pensato bene di caricare con le valigie 40 milioni in lingotti prelevati direttamente dalla banca centrale tunisina. La fortuna di Hosni Mubarak e famiglia viene valutata tra 40 e 70 miliardi di dollari, quel che è stato congelato nei conti esteri probabilmente è solo la punta dell’iceberg. Senza contare poi che alcuni riescono addirittura a tornare. È il caso della vedova Marcos, tornata a farsi eleggere in Parlamento nelle Filippine. Mentre è tornato a Haiti, alla vigilia delle elezioni, l’ex sacerdote Jean-Bertrand Aristide, che era diventato il primo presidente eletto dell’isola nel 1990, era stato deposto nel 1991, era tornato al potere con l’aiuto dei marines Usa nel 1994 ed era stato nuovamente esiliato da una sollevazione popolare nel 2004. Pochi mesi prima aveva fatto ritorno a Haiti anche il dittatore prima di lui, Baby Doc Duvalier. Il biglietto per l’esilio talvolta è andata e ritorno. “Ritornanti” sono molti dei nuovi leader in Tunisia, in Egitto e anche, per il poco che se ne sa, in Libia.


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