Le quattro lezioni del caso parmalat

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(1) Obiettivo di colonizzatori francesi; merce di scambio per la nomina di Draghi alla Bce; strumento di Berlusconi per osteggiare Tremonti; operazione per creare una cordata tricolore; cassa piena di liquidità  da svuotare: di tutto si è discusso, ma non dei problemi dell’azienda Parmalat. Le imprese che vengono acquistate sono quelle mal gestite, e che quindi hanno una valutazione depressa. Chi le acquista pensa di poterle gestire meglio, aumentandone il valore; altrimenti ci rimette. Parmalat ha margini sul fatturato risicati (circa il 5%, prima di oneri finanziari e imposte): un terzo di quelli dei leader europei Danone (15%) e Nestlè (13%). Lactalis può conferire in Parmalat le proprie attività  francesi nel settore per sfruttare le economie di scala; fonderla con Galbani, per beneficiare dei margini più elevati nel formaggio (ironicamente sarebbe un francese a creare il polo caseario italiano) e raggiungere le dimensioni per espandersi nei mercati esteri a maggiore crescita. L’acquisizione ha una valida logica economica che trova origine nei problemi gestionali lasciati irrisolti dal salvataggio. Che un’improvvisata cordata tricolore non avrebbe risolto. (2) Per Lactalis, l’Opa totalitaria era il modo per superare gli ostacoli posti dal Governo italiano. Ma avrebbe dovuto lanciarla subito: il vero scandalo sarebbe stato l’ennesimo passaggio di controllo con premio pagato solo a una minoranza degli azionisti. Le barricate di Tremonti sono servite a qualcosa, anche se non era questo l’obiettivo (e neppure il compito) del Governo. Avrebbero dovuto essere gli amministratori di Parmalat a reclamare un’offerta equa per tutti gli azionisti (incidentalmente Lactalis offre solo 2.6 euro contro i 2.8 pagati ai fondi esteri): l’Opa è “ostile” per loro, non per gli azionisti che dovrebbero tutelare. Avrebbero dovuto farlo anche gli investitori istituzionali italiani e la Consob. Invece, tutti in silenzioso ossequio del Governo e delle banche di sistema, in fiduciosa attesa della cordata italiana (che avrebbe depresso il valore del titolo). Comunque il problema dell’Opa in Italia è ormai risolto: a Piazza Affari sono rimaste appena 124 società  non finanziarie che valgono più di 100 milioni, e il 99% ha un gruppo di controllo. Le Opa ostili sono destinate a estinguersi per cause naturali. (3) Il dirigismo estemporaneo e raffazzonato è inutile e dannoso. La legge per impedire il pagamento di dividendi non impedirà  a Lactalis di prosciugare la liquidità  di Parmalat: per esempio, facendole comprare altre attività  del gruppo francese. Quanto al decreto sullo slittamento delle assemblee e sugli investimenti della Cassa DDPP, se ne è vista l’utilità . Mentre il danno di credibilità  di queste misure nei confronti degli investitori stranieri è indiscutibile. Eppure, questa lezione avremmo dovuto averla imparata 10 anni fa, quando il Governo Amato congelò i diritti di voto di Edf in Edison, promuovendo una “cordata” con A2A, ex-municipalizzate, e la solita banca di sistema. Risultato: marcia indietro sui diritti di voto; A2A a far da spettatrice nella gestione di Edison, senza alcuna sinergia, ma che ha dovuto oltremodo indebitarsi per piantare la bandierina, e che non vede l’ora smobilizzare il suo investimento. (4) Recentemente Tremonti ha ricordato che non si cresce con la spesa pubblica. Verità  sacrosanta. Poteva ricordarne un’altra: non ci sono grandi imprese senza imprenditori che le creano e manager che le fanno crescere. Se l’industria alimentare perde i pezzi, il problema non si risolve con cordate organizzate dallo Stato e banche di sistema. Se gli imprenditori del settore vendono per incassare e fare i finanzieri (come i Fossati con Mellin e Star) o sono allergici alla Borsa (come Ferrero) non ci si può illudere che siano i Governi e i banchieri a creare grandi gruppi in grado di competere sui mercato dei capitali. Ironia della sorte, nei giorni dell’Opa Parmalat, i Fossati hanno riportato minusvalenze sull’investimento in Telecom (altra operazione di sistema) per oltre 500 milioni: quasi il 20% del valore complessivo delle attività  industriali di Parmalat.


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