Libia, fallita la mediazione africana

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BENGASI – Un no secco. Non ha usato mezzi termini Mustafa Abdel Jalil (presidente del governo provvisorio di Bengasi) quando ieri pomeriggio ha illustrato ai giornalisti convocati all’hotel Tibesti il risultato dei colloqui con la delegazione dell’Unione Africana. «La proposta dell’Ua non prevede l’uscita politica di Muhammar Gheddafi e dei suoi figli, per questo la respingiamo». Che la mediazione dell’Unione Africana fosse votata all’insuccesso era stato chiaro fin dall’inizio. Non solo per gli stretti legami tra il colonnello e alcuni dei leader inviati a Tripoli a Bengasi (Uganda, Mali, Mauritania) ma perché la “road map” prevista dalla Ua e approvata dal raìs nella serata di domenica non affrontava il nodo principale (il destino di Gheddafi e dei suoi familiari) su cui il governo provvisorio di Bengasi è irremovibile. Quando poi ieri mattina è arrivata la notizia che il presidente sudafricano Zuma aveva lasciato Tripoli per fare ritorno in patria, si è capito che l’incontro tra delegati Ua e ribelli – senza la presenza dell’unico leader credibile – sarebbe stato un fallimento. Jalil ha aggiunto altre considerazioni. Che quella proposta era la stessa del 10 marzo scorso (allora rifiutata dal raìs) e che in questo mese Gheddafi «ha ripetutamente violato la risoluzione Onu bombardando le città  libiche e uccidendo civili», tanto che mentre erano in corso i colloqui a Bengasi la sua artiglieria continuava a lanciare razzi contro Misurata. Nessun margine di trattativa quindi, fino a quando non verrà  fatta una proposta accettabile: «Che Gheddafi e i suoi figli lascino la Libia se vogliono salvarsi la pelle; noi possiamo solo vincere o morire». La delegazione africana era stata accolta in mattinata da una folla di tremila persone che, sventolando le bandiere rosso-nero-verdi della nuova Libia, avevano gridato slogan contro il raìs, e issato cartelli («Gheddafi ha commesso un genocidio», «Portatevi il raìs via con voi») contro la dittatura di Tripoli. Nei colloqui non sono mancati momenti di tensione, quando i ribelli hanno affrontato il problema dei mercenari (molti dei quali arrivati da Ciad, Sudan e Mauritania) ricevendo in cambio un seccato “no comment”. Più che dai successi militari – senza i caccia Nato le truppe di Gheddafi avrebbero già  da tempo conquistato Bengasi – la fermezza di Jalil è dovuta al pieno appoggio che sul futuro del raìs il governo provvisorio ha da parte dei paesi occidentali. Dal Segretario di Stato Usa Hillary Clinton, che ieri ha ripetuto ancora una volta che un «processo di transizione» può iniziare solo quando il Colonnello avrà  lasciato il potere e sarà  partito in esilio (ipotesi che ieri sera il figlio del raìs, Seif al-Islam, ha bollato come «ridicola»), ai ministri degli Esteri di Italia e Gran Bretagna (ieri Frattini era a Londra per incontrare Hague), fino al Segretario della Nato Rasmussen («Non sospenderemo i bombardamenti, già  in passato Gheddafi ha promesso tregue che non ha mai rispettato»). «Deve lasciare il potere, questa è una precondizione perché possa iniziare una riconciliazione in Libia». Anche le parole di Frattini, in un’intervista alla radio francese Europe 1, non lasciano terreno a diverse interpretazioni. Dopo i tentennamenti iniziali l’Italia si è ormai ritagliata un ruolo di primo piano nella crisi libica, diventando uno dei principali interlocutori del governo provvisorio. Questa mattina saranno a Roma il capo militare degli insorti Yunis e il “ministro degli Esteri” al-Isawi, venerdì arriverà  lo stesso Jalil, che sarà  ricevuto dal presidente Napolitano e dal premier Berlusconi.


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