Marlane, l’ora del processo

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Una tragica storia di lutti e veleni, di silenzi e complicità . Sessanta operai attualmentemalati di cancro, altri quaranta già  deceduti per l’uso di coloranti azoici nella fase di produzione. E, ancora, altre vittime per l’amianto presente sui freni dei telai. Infine, tonnellate di rifiuti industrialimai smaltite, e seppellite impunemente nell’area circostante lo stabilimento. Un’inchiesta durata dieci anni, condotta dal procuratore Bruno Giordano (lo stesso che istruì l’indagine sulle navi dei veleni), che parte da molto lontano. Dalle riunioni che un gruppo di ambientalisti del Tirreno cosentino tenevano a Scalea ogni lunedì alla fine degli anni Novanta. Si incontravano per parlare di erosione costiera, speculazione edilizia, discariche, elettromagnetismo. In uno di quei lunedì si presentarono Luigi Pacchiano e Alberto Cunto operai della Marlane. Per raccontare il dramma di colleghi colpiti dal tumore e morti uno dopo l’altro. Tutto ebbe inizio da lì. Da quell’incontro tra lavoratori e attivisti. A cui si aggiunsero medici, giuristi, operatori dell’informazione, e, poi, le vedove, le famiglie, i malati. A guidare quella compagine di ambientalisti, riuniti sotto la sigla Rischiozero, era il mediattivista Francesco Cirillo che, dodici anni più tardi, ripercorre con Pacchiano e Giulia Zanfino la vicenda della fabbrica praiese nel libro, fresco d’uscita, Marlane: la fabbrica dei veleni (Coessenza, pp.192, 10 euro). «Questo gruppetto di lavoratori, soli, aggrediti dai sindacati ufficiali – scrive Cirillo nella prefazione – dai politici tutti, invisi a parte della cittadinanza compreso il sindaco, colpevolizzati di far chiudere la fabbrica con le loro denunce e far perdere il posto di lavoro a centinaia di padri di famiglia, chiedevano a noi un aiuto. E noi ci mettemmo a disposizione ». Il libro ripercorre, così, la lotta decennale, i protagonisti, il vissuto delle famiglie chiamate a rompere il muro di omertà  e di assoggettamento. Un interessante lavoro editoriale che mette insieme tutte le microstorie, i documenti, le perizie, gli articoli di giornale, le interviste, partendo dalla nascita del Gruppo Rivetti–Marzotto negli anni Cinquanta, fino alla sentenza di rinvio a giudizio nello scorso novembre. Il libro prende avvio dalle vicende del conte Stefano Rivetti, dalla sua tomba, posta in cima al monte San Biagio che sovrasta Maratea. È qui, in «un’area dove si incrociano le tre regioni più povere d’Italia» che si presenta Rivetti, il conte, giunto come «un Cristo che deve redimere una terra abbandonata». Grazie ad ingenti finanziamenti della Cassa delMezzogiorno, fonda nel 1957 il Lanificio di Maratea, il complesso industriale R1, per poi spostarsi, l’anno dopo, in Calabria, a Praia e per far nascere la R2. «La storia di Rivetti, e poi di Marzotto – scrive Pacchiano – è la storia della nostra subalternità  al padrone del nord e al padrone in genere. È la storia di quanto i nostri politici siano stati miserabili nel senso vero della parola. Hanno voluto solo il proprio benessere piuttosto che quello dei lavoratori. La salute di chi lavorava non hamai interessato loro. Hanno spostato le aziende comemeglio hanno creduto, licenziando ed assumendo a proprio piacimento. Hanno approfittato delle scarse condizioni economiche di questa povera gente per far di loro ciò che poi hanno fatto». In effetti, la subalternità  della classe politica locale è palpabile. «La Praia perbenista ha dedicato una piazza al conte Rivetti, agli operai morti per il lavoro neanche un vicoletto. A Praia al potere ci sono sempre gli stessi da quarant’anni, legati più o meno al grande serbatoio elettorale che era la Marlane». Oggi quella grande fabbrica tessile non esiste più. Dopo l’era Rivetti, gli stabilimenti furono assorbiti prima dall’Imi (Istituto mobiliare italiano), poi dalla Lanerossi e, infine, dall’Eni che, nel frattempo, aveva rilevato la Lanerossi. Nel 1987 entrò in scena Marzotto. Il resto è una storia silenziata per tanto, troppo tempo. Una narrazione di inquinamento letale e di servilismo politico, ignorata dai mezzi di informazione (eccetto il manifesto e pochi altri) e salita alla ribalta, anche giudiziaria, grazie al lavoro di controinformazione di Cirillo e dei lavoratori. Che in quella fabbrica, ora dismessa, ci sono, poi, tornati per documentare l’abbandono e l’incuria. «Attorno allo stabilimento ci sono solo erbacce. Le ruspe hanno finito di scavare attorno allo stabilimento alla ricerca di metalli pesanti e altre sostanze chimiche. L’elemento più preoccupante ritrovato nel corso dei saggi di scavo è il cromo VI esavalente come dimostrato dalla relazione commissionata dalla Procura di Paola (che il libro pubblica in versione integrale ndr)». Le operazioni di campionamento furono eseguite nel novembre del 2007. Dopo tre anni, stamane alle 10 il processo può aver finalmente inizio ma nel disinteresse della cittadinanza locale. «Praia assiste muta – sottolineano gli autori – quasi a volersi scrollare di dosso il marchio di città  tossica». Il sindaco Carlo Lomonaco (Pdl) figura tra gli imputati, quale responsabile del reparto tintoria dal 1973 al 1988, responsabile dell’impianto di depurazione dal 1973 al 1988, e direttore dello stabilimento dal 2002 al 2003. «Ma anche Marzotto vorrebbe dimenticare Praia. Da tempo ha trasferito tutte le sue aziende nei paesi nell’Est. Le famose coperte della Lanerossi hanno già  lasciato lo stabilimento di Schio per la Lituania, i tessuti di lana per la Repubblica Ceca, la Marlane forse è finita a Brno». Chi non è scappato sono gli operai come Cunto, Pacchiano (che è anche coordinatore calabrese dell’Osservatorio nazionale amianto) e tanti altri. Che lottano contro l’indifferenza e l’egoismo, i macigni che schiacciano verità  e giustizia. Raccontando conminuzia una tragica parabola industriale «affinché storie terribili come queste – scrive Cirillo – non si ripetano più e il rispetto per la vita delle persone che lavorano diventi un punto altro ed incontrovertibile».


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