Moby Prince, vent’anni fa la strage

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E la richiesta di giustizia è stata sollevata ancora una volta oggi, durante le celebrazioni ufficiali, dai familiari delle vittime che non si arrendono, che chiedono a chi sa di dire quello di cui è a conoscenza: “chi sa parli e gli Stati Uniti, se hanno tracciati radar o fotografie satellitari, li mettano a disposizione”, ha detto Loris Rispoli, presidente del Comitato ‘140’. Livorno continua a ricordare quella sera, quando tutto sembrò non funzionare a dovere, quando per un’ora nessuno si rese conto che oltre all’incendio sulla petroliera, carica di oltre 80 mila tonnellate di petrolio, c’era il traghetto alla deriva della rada del porto. Una palla di fuoco, trasformatasi ormai in una bara galleggiante quando venne raggiunta dai primi soccorritori. Uno solo si salvò, il mozzo Alessio Bertrand che 20 anni dopo dice che l’incubo di quella notte “non vuole” abbandonarlo e lo costringe a prendere psicofarmaci per dormire. Le ultime novità  sulla riforma della giustizia potrebbero bloccare definitivamente la possibilità  di arrivare a capire di chi furono le responsabilità , chi sbagliò o chi avrebbe potuto fare di più. In aiuto dei familiari delle vittime del Moby arrivano altri Comitati, quelli dei familiari di altre tragedie o stragi.

Oggi a Livorno, a gridare la loro “rabbia”, c’erano anche alcuni dei familiari delle vittime del 29 giugno 2009 a Viareggio. “Siamo stanchi, siamo stufi”, ha detto la portavoce dell’Assemblea “29 giugno” Daniela Rombi, invitando i comitati delle vittime del Moby a unire le forze, annunciando la sua presenza mercoledì prossimo a Roma, insieme ai comitati delle famiglie delle vittime del terremoto dell’Aquila davanti alla Camera per protestare contro la riforma per il processo breve. La richiesta di giustizia, ha assicurato il sindaco di Livorno Alessandro Cosimi, unisce cittadini e istituzioni. Una richiesta che, secondo un nuovo studio ancora in fase embrionale, potrebbe trovare qualche risposta dagli scenari che emergerebbero, secondo quanto riferito da Gabriele Bardazza, responsabile dello studio di ingegneria forense, incaricato dall’associazione “10 Aprile”, sostenuta dai figli del comandante del traghetto, Angelo e Luchino Chessa. “Chiederemo che il reato di strage non cada in prescrizione. Chiederemo che venga cambiato il capo d’imputazione in strage dolosa. Lo chiederemo al presidente della Repubblica, ai presidenti di Camera e Senato, ai partiti e ai parlamentari”, ha assicurato Rispoli mentre la città  con uno spettacolo, un libro, una canzone e perfino un fumetto, ha rilanciato il suo impegno per la verità .

Aveva mollato gli ormeggi alle 22.03 dal porto di Livorno, mezz’ora più tardi era già  una palla di fuoco alla deriva nella rada del porto toscano, una bara galleggiante.

Nessuno, però, per quasi un’ora si accorse di ciò che avveniva a bordo del Moby Prince, il traghetto della Navarma sul quale il 10 aprile 1991 morirono 140 persone. Alle 22.36 Renato Superina, comandante della petroliera Agip Abruzzo, contro la quale era finita la prua del Moby, lanciò l’allarme per un incendio a bordo dopo la collisione con una bettolina.

A Livorno, chi pensò al Moby, lo immaginò ormai diretto ad Olbia, con al timone il comandante Ugo Chessa, e i soccorsi si concentrarono sull’Agip. Solo per caso alle 23.35 due ormeggiatori si avvicinarono al traghetto in fiamme e così venne scoperta quella che sarà  la più grave tragedia della marina mercantile italiana dalla Seconda Guerra mondiale.

Un solo superstite, il mozzo Alessio Bertrand che, aggrappato al bordo del Moby fu salvato proprio dagli ormeggiatori che lo convinsero a gettarsi in acqua. Dal traghetto, come poi verrà  ricostruito durante i processi, la richiesta di soccorso era partita: “May day…. may day..Moby Prince….. Moby Prince…..siamo in collisione ..siamo in fiamme..occorrono i vigili del fuoco…compamare se non ci aiuti prendiamo fuoco..may day may day……”.

Erano le 22.26, ma alla sala radio della Capitaneria arrivò con un segnale debolissimo, non venne sentito. Sono passati 20 anni ma il film di quella notte e quello dei giorni successivi continuano a scorrere negli occhi e nelle menti dei familiari delle vittime, 75 passeggeri e 65 membri dell’equipaggio. E coloro che lavorarono tutta la notte con la speranza di trovare ancora qualcuno in vita nei saloni di quell’ammasso di lamiere annerite che il giorno dopo verrà  rimorchiato, ancora fumante, nella Darsena del porto. Le tante storie di chi solo per miracolo si è salvato, perché arrivato in ritardo per la partenza o sbarcato poche ore prima per qualche giorno di ferie, si intrecciarono con quelle dei corpi trovati a bordo.

Di certo la morte per la maggioranza delle persone a bordo non fu immediata: oltre 40 corpi vennero trovati all’interno di uno dei saloni centrali del traghetto e le autopsie confermeranno la presenza di monossido di carbonio nei polmoni. Probabilmente si erano riuniti convinti che i soccorsi arrivassero prestissimo vista la vicinanza al porto.

Invece il racconto dei primi vigili del fuoco saliti a bordo di quello che restava del Moby parlarono di un ammasso di corpi bruciati, ormai tutt’uno con le lamiere e ciò che restava di mobili e suppellettili. Terribile l’opera di riconoscimento delle vittime: ai familiari venne chiesto di ricordare qualsiasi particolare utile a permettere di riconoscere i loro cari.

E intanto, mentre ancora il Moby bruciava, partirono le prime polemiche: per i ritardi nei soccorsi, per la nebbia che per qualcuno c’era per altri no, per un tratto di mare affollato da navi americane di ritorno dalla prima guerra del Golfo. Poi l’avaria del timone, l’errore umano. Fino all’ipotesi di un attentato. Polemiche che alimenteranno i processi e che faranno della tragedia del Moby uno dei misteri italiani.


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