Nel centro del Labirinto nucleare il reattore è come un Minotauro

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Oggi l’apocalisse giapponese mi ci ha fatto ripensare. Riporto qualche brano di quella lontana e per me straordinaria esperienza. La guardia giurata mi lascia all’ingresso di una costruzione rettangolare a due piani separata dal cilindro di cemento che contiene il reattore. Qui è la sala dei comandi, il cervello della centrale, dalla quale si osserva la vita del reattore in tutte le sue fasi, e si impartiscono gli ordini necessari che ne regolano l’accensione e il funzionamento. Quando entro nella sala vedo le pareti coperte per decine e decine di metri quadrati da pannelli costellati da manopole, pulsanti, spie luminose che s’accendono e si spengono, fitti come sopra il cruscotto di un aereo di linea, un cruscotto moltiplicato per cento, duecento volte. Quivi convergono per infinite e complicate vie, per chilometri e chilometri di cavi collegati incrociati intrecciati, tutti i possibili dati trasmessi dal recipiente a pressione del reattore che si trova nella torre cilindrica che sorge accanto. Come è fatto questo recipiente?, domando alla mia guida. «È di acciaio con lo spessore di circa 25 centimetri. Le lamiere arrivano dal Giappone, ma vengono saldate in Italia. Si fanno le radiografie delle saldature e si conservano. A intervalli vengono rifatte, confrontandole con quelle precedenti, per vedere se vi sono state alterazioni. L’operazione radiografica si ripete per tutto il tempo che il reattore è in funzione, a intervalli regolari» . Al centro della sala c’è una specie di scacchiera ottagonale, divisa in tanti quadrati quante sono le barre di uranio immerse nell’acqua del recipiente. Com’è fatta una barra di uranio? «Ogni barra è formata da più tubi cilindrici stretti in un fascio. In ognuno dei tubi, proprio come pasticche di Alka-Seltzer nel loro tubetto, sono contenute le pasticche di uranio, impilate una sull’altra» . E come si ottiene l’accensione? «Bombardando con neutroni le barre. Il neutrone colpisce l’uranio provocando la rottura del nucleo, cioè la “fissione”. La fissione libera altri neutroni che producono altre fissioni, realizzando appunto una reazione a catena» . Simile a quella ottenuta da Fermi nel 1942? «Precisamente. La reazione a catena genera calore e riscalda l’acqua fino a 300 gradi circa, poiché il recipiente funziona come una pentola a pressione. Il vapore va poi ad azionare la turbina che produrrà  energia» . Una volta avvenuta l’accensione si può spegnere? «No, la reazione a catena dura fino all’esaurimento dell’uranio combustibile, la durata è di due anni circa» . E come si regola la temperatura? «Con un dispositivo formato da altre barre a sezione cruciforme di un metallo capace di assorbire i neutroni. Introdotte tra una barra di uranio e l’altra formano uno schermo che le protegge dal bombardamento dei neutroni. L’azione regolatrice si ottiene manovrando queste barre, alzandole e abbassandole. Ora, se si guarda sulla parete di questa sala di comando, lì dove si vede lo schermo ottagonale, ogni quadrato della scacchiera sta a segnalare la situazione di ciascuna barra, il suo grado di calore, il suo grado di usura e qualsiasi difetto di funzionamento» . Dunque mi trovo nel cervello della centrale. Questo cervello è stato costruito da molti tecnici, da molte équipe di specialisti, ognuna esperta di questo o quel settore, ognuna ignorando quel che faceva l’altra. Una super équipe ha concepito la connessione tra le varie parti e il cervello adesso è pronto, va per conto suo, gestito da persone che, per quanto qualificate, difficilmente sarebbero capaci di ricostruire quella connessione unificante. Dunque questi uomini hanno tra le mani qualcosa che loro sfugge, qualcosa di misterioso e terrificante. Invece se ne stanno lì, tranquilli come i tecnici di una innocua sala di trasmissione della televisione. Nel pomeriggio visiterò la torre centrale. Intanto torno a Caorso, il paese è poco distante, e lì c’è un ristorantino con un menù allettante. Le delizie della cucina piacentina mi fanno per un po’ distrarre dai pensieri che mi avevano finora accompagnato. Poi, nella bella Piazza dei Cavalieri, dove come ogni sabato c’è la fiera, mi soffermo tra i banchi a guardare i venditori: uno sta decantando un coltellino… «Un articolo comodissimo, fabbricato in Germania. Quante volte c’è una coppa, un salamino, un culatello da affettare… ecco, voi prendete il cotechino, lo zampone, la pancetta, e con questo coltellino qui…» . Lo lascio spiacente di non poter ascoltare il suo parlar distinto da imbonitore con delicate modulazioni dialettali dolcissimamente insinuanti, e salgo sulla macchina per ritornare alla centrale. Questa volta visiterò la torre, scenderò con tuta e dosimetro nelle sue viscere profonde, nella «zona controllata» . La discesa nei vari gironi di questo infernetto tecnologico avverrà , mi informano, nell’intercapedine che si trova tra il cilindro di cemento della torre e la struttura di contenimento, a forma di imbuto rovesciato, anch’essa di cemento, che racchiude il reattore. Da lì potrò vedere le lamiere d’acciaio, dello spessore di 25 centimetri, del recipiente nel cui interno brucia l’uranio… Ed ecco che, accompagnato da un ingegnere, mi avventuro bardato come un cosmonauta in questi spazi angusti, in questi meandri, in questi corridoi di metallo, con la sensazione di muovermi dentro un sottomarino. Ma qui lo spazio si avvolge su se stesso in una conformazione sempre più labirintica, e dopo un po’ si perde il senso dell’orientamento. Mentre stamattina, nella sala dei comandi, ero nella condizione di uno spettatore che guarda su uno schermo davanti a sé lo spettacolo della parete coi pannelli e le lucine che si accendono e si spengono, ora invece mi trovo immesso nello spettacolo come fossi uno spettatore dell’Orlando di Ronconi, in una continua moltiplicazione di punti di vista entro i quali il mio sguardo diventa sempre più relativo. Anche qui il particolare (tubi, cavi, porte, leve, valvole, tubi di aerazione, segnali, manopole e condotti ramificati, a spirale, ad arabesco), il particolare dicevo è talmente proliferante da cancellare l’idea generale verso cui converge. Suscita invece un tipo di attenzione catatonica, e dov’è il centro di questo apparente «bricolage» di pezzi meccanici? E dove la trovo una scrittura altrettanto contorta bullonata speculare e labirintica per descrivere ciò che vedo? Mi dice l’ingegnere che ogni tubo apparecchiatura cavo o congegno, se è essenziale, è duplicato, e il suo doppio è dislocato altrove, in un punto diverso dal primo, per poterlo sostituire in caso di guasto e garantire così il funzionamento complessivo! Ma nonostante questi sdoppiamenti pirandelliani — mi viene da pensare— il gioco delle parti non cambia. Perché sempre di tubi, cavi, valvole, viti, bulloni, dopotutto si tratta— sono questi gli elementi della tecnologia di un impianto nucleare, e finché non sarà  inventato un sistema diverso, diversamente concepito, fondato su un’ingegneria diversa, come si fa a esser sicuri della tenuta di ciascuno di questi componenti sottoposti a condizioni imprevedibili e comunque eccezionali? Come si fa a esser sicuri che un tubo non si spacchi, una valvola non si blocchi, un cavo non si spezzi? Domande ingenue, di un profano, che non oso rivolgere all’ingegnere per non sentirmi rispondere con una risata… E però durante la discesa siamo accompagnati da cartelli con scritte e segnali preoccupanti. E uno ingiunge: «Vietato bere fumare e mangiare» . Un altro: «Sirena continua, preallarme. Sirena bitonale, allarme» . Un altro ancora impone di cambiarsi la tuta e tutti gli indumenti protettivi nel passare da una zona controllata di minore radioattività  a una controllata ma di maggiore radioattività . E noi, con le nostre tute bianche, berretti bianchi, soprascarpe e guanti (come i pazzi nei manicomi di una volta), procediamo in questo manicomio (così mi appare a tratti) verso il recipiente di acciaio, che sta lì, come il Minotauro al centro del Labirinto. La polvere radioattiva che non si vede, che può essere dovunque, che può essere inalata o depositarsi nella suola delle scarpe, quei cartelli inquietanti in lingua inglese sparsi un po’ dappertutto, creano un’atmosfera dove il pericolo diventa qualcosa di impalpabile e onnipresente, qualcosa di sinistro contro cui non vale il coraggio, come una morte aleggiante nell’aria. E il senso di aver violentato l’insondabilità  della materia, il suo ordine, la sua naturale organizzazione — e del male che può ricadere terribile su chi lo ha fatto— a volte si manifesta mio malgrado irresistibilmente. Quando usciamo da quell’infernetto e «tornammo a riveder le stelle» , ovvero all’aria aperta, tiro un sospiro di sollievo. Mi domando: questo piccolo universo che ho appena visitato è un modello del mondo che voglio? Voglio un mondo altrettanto incomprensibile, estraneo a me, governato da quelle precauzioni e da quelle cautele, sottoposto alla stessa vigilanza che quei cartelli segnalano, dove sarà  perennemente necessario rimuovere il terrore dell’imprevedibile? No, non lo voglio. Così finiva il mio reportage. E anch’io ho finito di riscriverlo sul computer per inviarlo al «Corriere» . Questa descrizione mi sembra interessante dopo le terribili notizie che arrivano dal Giappone. Quando vado nel bagno per lavarmi le mani, trovo il lavandino nero di formiche. Da dove saranno arrivate? È già  successo un’altra volta, un mese fa. Allora ho aperto il rubinetto e le formiche sono sparite con l’acqua nel buco del lavandino. Ma ora non me la sono sentita, e almeno loro, le formiche, si sono salvate questa volta a causa dello tsunami giapponese. Non ho voluto essere, io per loro, uno tsunami. Altrettanto spietato.


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