Polveriera Cina e riflessi condizionati

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Will Hutton, analista, scrittore, tra i governors della London School of Economics, mette sul chi va là  il Primo ministro australiano Julia Gillard, che sta per recarsi a Pechino in visita ufficiale.
È l’ennesima provocazione occidentale o c’è del vero?

Hutton sottolinea soprattutto l’aspetto economico: le riserve cinesi, frutto del surplus commerciale, hanno raggiunto la cifra record di tremila miliardi, provocando una bolla che “sta per scoppiare”.
“Ciò che è insostenibile – scrive – non può essere sostenuto”. L’enorme liquidità  ha reso perverso il meccanismo dei prestiti (soprattutto quelli immobiliari e infrastrutturali), che ormai superano come valore complessivo il prodotto interno lordo: non si riescono a recuperare né gli interessi né i prestiti stessi, la spirale inflattiva è incontrollabile, il sistema è fragile ed è inevitabile che produca disordini sociali.
Non solo. Rincara la dose l’arcinoto economista Nouriel Roubini, secondo cui il livello dei risparmi individuali resta alto perché non essendoci ancora un welfare, i cinesi risparmiano per pagarsi cure e pensioni. Così i soldi non rientrano nel ciclo economico, sviluppando consumi e quindi produzione. La Cina continua a non essere un Paese di consumatori, nonostante troppi soldi in circolo.

L’aspetto economico è fondamentale, perché è sulla crescita che le autorità  cinesi costruiscono il consenso. Ma segnali di nervosismo provengono anche dal fronte politico-sociale.
Di recente, anche chi di solito guarda con simpatia e interesse alla Cina non ha potuto fare a meno di riconoscere una recrudescenza della repressione nei confronti dei “cani sciolti” (definizione di Global Times, spin-off del Quotidiano del Popolo): si pensi alla vicenda di Ai Weiwei e a quella del blogger sino-australiano Yang Hengjun, prima scomparso e poi ricomparso.
L’azione repressiva può essere letta come dimostrazione sia di forza sia di debolezza da parte del governo e del Partito. Sarebbe una contraddizione, ma la Cina non ragiona secondo la nostra categoria di contraddizione, gli opposti possono convivere.

A orecchie cinesi non suona così strano che un “cane sciolto” sia bastonato. Ma quando la repressione si abbatte sulla gente comune, allora qualcosa si è rotto: il sistema che deve redistribuire i frutti della crescita economica è andato in panne.
A Pechino, per esempio, è stato inaugurato a gennaio un piano quinquennale di “controllo della popolazione” che prevede il trasferimento di circa settecentomila persone dal centro città  ai sobborghi lontani. Le misure colpiranno soprattutto i residenti “di fascia bassa” e i migranti senza diritto di residenza. Idem a Shenzhen, dove ad aprile è stato lanciato il “movimento dei cento giorni” in vista delle Universiadi del prossimo agosto. Nella metropoli del sud saranno circa ottantamila “persone ad alto grado di pericolosità ” a essere spedite fuori dal territorio cittadino.
Sono misure repressive che colpiscono le fasce più svantaggiate. Un sondaggio online fatto dal sito umiwi.com rivela che le misure pechinesi sono giudicate dall’85 per cento dei votanti “mezzi non desiderabili e ingiusti”.

L’economia cinese non è assimilabile in tutto e per tutto a quella dei Paesi occidentali e dei vicini asiatici di capitalismo più antico (Giappone e Corea). L’alto livello di investimenti in immobili e infrastrutture non è solo speculazione. È potenzialmente produttivo. Le nuove linee ferroviarie ad alta velocità , per esempio, aumentano la produttività  della forza lavoro che in treno si sposta. Idem per le strade. Le case, nonostante aumentino i casi di ghost town costruite nel nulla e abitate da nessuno, possono essere riempite da un ceto medio in crescita numerica.
E poi c’è sempre la guida politica dell’economia, che permette al governo di aprire e chiudere rapidamente i rubinetti dei prestiti bancari e di imporre limiti a chi acquista seconde, terze o addirittura quarte case per specularci. Negli ultimi due mesi, la municipalità  di Pechino ha fatto entrambe le cose: ha bloccato l’acquisto di immobili da parte dei non residenti in città  e ha imposto alle banche di aumentare la riserva obbligatoria che dovrebbe garantirle in caso di eccessiva esposizione.

Ciò che è più difficile controllare sono i riflessi condizionati dello stesso potere cinese, l’irrigidimento automatico di fronte alle minacce che vengono dall’esterno. Sono spesso reali, si intenda, un giorno qualcuno scriverà  la vera storia delle “rivoluzioni del gelsomino” e probabilmente vi vedrà  un nuovo modello di governance globale concepito a Washington e dintorni.
Ma il sistema politico cinese, in questo inizio 2011, sembra meno capace di assimilare la complessità  politica che lo circonda: non solo dissidenza eterodiretta, non solo minacce alla stabilità  e all’armonia, ma richieste reali che provengono dalla Cina profonda.
E anche nella vita biologica, gli organismi che non riescono ad assimilare le sollecitazioni dell’ambiente in cui vivono, prima o poi muoiono.


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