Putin-Medvedev diarchi a mosca

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E non basta, perché l’altro giorno un cancelliere dello stesso tribunale, Igor Kravcenko, ha confermato in un’intervista a Novaya Gazeta (unico organo di stampa rimasto a criticare gli uomini e i metodi del regime) le rivelazioni della Vasilyeva. Aggiungendo che era stato proprio il presidente Danilkin a dirgli che la sentenza era venuta dal di fuori del tribunale. Riepiloghiamo rapidamente la vicenda Khodorkovsky. Il proprietario della Yukos, compagnia petrolifera che forniva al mercato il 2 per cento della produzione mondiale, venne condannato nel 2003 a otto anni di carcere per frode fiscale. In realtà , come scrissero tutti i maggiori quotidiani del mondo, Khodorkovsky pagava così i suoi progetti d’entrare – con i suoi enormi capitali – in politica, deciso ad ostacolare il consolidamento del regime degli ex Kgb capeggiati da Putin. Trascorsi gli otto anni in un carcere siberiano (un “gulag-lit”, come lo chiama ironicamente lui stesso), Khodokovdkij avrebbe dovuto essere liberato all’inizio di quest’anno. Ma l’autunno scorso scattarono contro di lui nuove imputazioni, s’aprì il nuovo processo, e ci fu la nuova condanna a quattro anni. Quel che serviva, insomma, a tenerlo ancora per molto tempo fuori dalle vicende politiche russe, a cominciare dalle elezioni presidenziali del 2012. Che adesso uno dei magistrati del processo si sia convinto a rivelarne l’irregolarità , gli ordini ricevuti dall’esecutivo, non è poca cosa. A Mosca sono in molti a pensare, infatti, che le rivelazioni della Vasilyeva (e quelle di Kravcenko) costituiscano una mossa importante nella campagna pre-elettorale che vede ormai sempre più contrapposti Vladimir Putin e Dmitrij Medvedev. Questa è un’altra sorpresa, anche se aveva cominciato a delinearsi già  qualche mese fa. La sorpresa di quella che a tutt’oggi sembra una frattura (non si sa se sanabile o no) della “diarkhiya” Putin-Medvedev su cui si regge il regime. I contrasti tra il presidente e il primo ministro si susseguono da due o tre mesi. Possono essere a volte clamorosi, come quello sulla guerra di Libia: con Putin che accusava la Nato di condurre “una crociata medievale”, e Medvedev che rigettava, definendole “inaccettabili”, le parole del primo ministro. Ma gli urti più importanti sono meno in vista, e percepibili solo in alcuni settori della società  moscovita: le “élite” (l’alta burocrazia, i manager dell’industria di stato), e la “business community” internazionale, compatta attorno a Medvedev e alle sue promesse di aprire sempre più varchi agli investimenti stranieri. È in questi settori che l’ultima decisione di Medvedev, quella di proibire la presenza di membri del governo ai vertici dell’industria di Stato (petrolio e gas innanzitutto) ha prodotto le maggiori reazioni. Nel 2008, nei discorsi pre-elettorali, Medvedev aveva già  preso di mira la commistione tra incarichi governativi degli ex Kgb più vicini a Putin, e la loro gestione dei giganteschi introiti che provengono dalle risorse energetiche del paese. Ma poi, eletto presidente, non aveva più toccato la questione, avvalorando così la tesi che circondò da subito la sua elezione: quella d’essere un protegé di Putin, una specie di fantoccio che avrebbe agito solo e soltanto nell’interesse del suo protettore. Non è stato così, perché il decreto sull’esclusione dei ministri dai Cda dei grandi monopoli colpisce direttamente e duramente la cricca degli uomini di Putin. Igor Sechin, ex alto dirigente del Kgb e attualmente vice-primo ministro, ha dovuto infatti dimettersi dalla presidenza del colosso petrolifero Rosneft. E Sechin è una specie di alter ego di Putin, il coordinatore e sorvegliante della truppa di ex agenti segreti che oggi governa la Russia, detentore quindi di un potere enorme. Né è il solo ad aver dovuto lasciare la sua poltrona di manager: a Mosca si parla d’una quarantina di ex Kgb ormai estromessi dai vertici dell’economia. È il segno d’una vera scissione prodottasi nella “diarkhya”, o dell’ennesimo gioco delle parti messo in scena tante volte dai diarchi? Medvedev che parla per rassicurare governi e soprattutto investitori occidentali, mentre Putin si rivolge agli strati della popolazione russa meno acculturati che in una recente inchiesta appaiono ancora nostalgici di Stalin, d’un capo con poteri assoluti? Tra quattro o cinque mesi, con l’avvicinarsi delle elezioni presidenziali, il quadro del potere in Russia si farà  più chiaro. Ma due aspetti della situazione sembrano già  certi. Il primo è che il rapporto Putin-Medvedev (nato con l’intento di consentire a Putin di ritornare presidente l’anno prossimo) ha funzionato perfettamente, senza una sola sbavatura, per il primo anno, con qualche sobbalzo nel secondo, mentre in questo terzo anno ha presentato forme di contrapposizione sempre più vistose. E il secondo aspetto è il nervosismo delle élite militari, economiche e politiche. Le quali, nell’eventualità  d’una autentica lotta elettorale tra i diarchi, si muovono per ora alla cieca cercando di capire da che parte situarsi. Al vertice del potere sembrano esserci ormai, infatti, due partiti. Quello di Putin, radicato nell’alta burocrazia, nelle forze armate, nei servizi segreti, e il partito “modernizzatore” di Medvedev sostenuto dalla parte più evoluta – e quindi più consapevole della grave arretratezza in cui si trascina la Russia – della società . No, beninteso non si tratta d’un avvio di vita democratica in Russia. Ma probabilmente è un disgelo politico. Quanto meno, la prima volta che il regime di Putin deve affrontare una minaccia alla sua durata e compattezza.


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