“Il mio ritorno a Beirut”

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BEIRUT – la fotografia è un istante del mondo, un rettangolo messo sul paesaggio, una tessera della memoria»: alle nove del mattino Gabriele Basilico cerca la sua prima inquadratura sotto al cielo azzurro di questo Medio Oriente assediato da fuochi che bruciano in Libia e Siria. Davanti al venditore di falafel passano Suv veloci come vento tra i palazzi appena rivestiti di tufo e acciaio. Gli uomini della security Hawk presidiano la Moschea al Amin, con le sue cupole blu, e la cattedrale ortodossa di San Giorgio. Dice che la prima foto del suo nuovo viaggio a Beirut vuole farla qui, in Place des Martyrs, la Piazza dei Martiri, rinata vent’anni dopo. «Nei giorni del mio primo viaggio, anno 1991, qui c’erano pioggia, fango, macerie». Ora Beirut ha ripreso i colori della vita dopo i quindici anni in bianco e nero della guerra civile che ha crivellato tutti i suoi palazzi, accatastato duecentomila cadaveri tra l’ovest sciita e l’est cristiano, che si contendevano ogni centimetro di vita lungo la Linea verde abitata dai cecchini. Basilico piazza il treppiede della sua Linhof Technikardan che va caricata con un negativo alla volta. L’inquadratura, che controlla infilando la testa sotto al drappo nero, come si faceva mezzo secolo fa, gli compare rovesciata nel visore. Lui calcola la disposizione degli edifici «come fossero masse astratte, disposte lungo le linee della luce e dell’ombra». Sono la sua geometria. Sono la sua poetica: «L’idea di riprodurre il mondo con un massimo di densità , un massimo di significato, in un colpo d’occhio irripetibile». Indica un punto, dice: «La Linea verde passava laggiù». Come tutti i grandi fotografi Basilico vede cose che a occhio nudo non si vedono. Racconta: «Sapevo, nei giorni del ’91, che il dopoguerra avrebbe cancellato ogni traccia, ogni maceria, perché è così che fanno i sopravvissuti per ricominciare a vivere e che la responsabilità  di quella memoria stava in ogni mia inquadratura. Per questo fotografai moltissimo, 530 scatti in due settimane, una voragine alla volta, senza mai abituarmi né all’emozione, né all’orrore». Regola a 22 il diaframma. Verifica la luce. Perché è nella luce dei cristalli che adesso – dopo le ultime guerre del 2006 e del 2008 – si irradia la nuova avventura di una delle città  più fascinose al mondo, stesa tra i fertili monti dello Chouf, dove sorge il sole, e il Golfo, dove tramonta, con il suo calendario di modernità  che incalza. Ogni giorno si celebrano inaugurazioni di centri commerciali pieni di computer cinesi, gioielli italiani, arredi indiani. Ogni sera aprono ristoranti nel quartiere alla moda di Hamra, e gallerie d’arte con artisti selezionati a Londra e Dubai. Rinascono le torri a cinque stelle delle multinazionali che in questi anni si erano spostate negli Emirati. Il suo ritorno è un omaggio al presente e alla memoria: «Questa piazza era solo polvere. Tutto era stato distrutto, smontato, rubato, anche le targhe blu delle strade. E nel nulla, laggiù, c’era questo Moammed che in un negozio sfondato preparava tè verde e caffè nero per i passanti. Solo che non c’erano passanti. C’eravamo solo io, la mia macchina fotografica e un gatto». I palazzi e i cantieri qui intorno fanno tutti capo a Solidere, la società  immobiliare che fu di Rafik Hariri, il primo ministro sbriciolato con trecento chilogrammi di esplosivo il 14 febbraio del 2005, e che adesso è stata eredita dal figlio, anche lui primo ministro, anche lui ingranaggio di questo eterno ritorno. È Solidere che ha invitato Gabriele Basilico, per offrirgli tutti i nuovi rettangoli di questa città  che eternamente rinasce dalla ceneri. Addestrata a soffrire e insieme a godersi le pigrizie della dolce vita levantina. A contenere l’inferno dei campi profughi palestinesi e le notturne follie del jet set. A subire gli assedi israeliani e quelli di Hezbollah. Il tallone di ferro dei siriani e i tacchi a spillo delle ragazze che danzano le loro notti occidentali tra i laser del Crystall e del Club Set. «Di tutte le città  che ho fotografato, Beirut è sempre quella che mi emoziona di più. Ci ritrovo Rossellini, De Chirico, Piranesi. Ci sono rovine fenice, romane, ottomane. E lungo lo stesso asse lo scheletro dell’Holliday Inn che sembra anche lui un reperto archeologico, oppure quella meraviglia laggiù, la Boule». Quello che resta della Boule, la porzione di una sfera in cemento e ferri ritorti, sta al centro della piazza. È il vecchio cinema Orient tagliato a metà  dai bombardamenti. Una bolla del tempo che probabilmente rimarrà  come monumento e monito, tra i palazzi che sta disegnando Jean Nouvel. Nei centottanta ettari di cantieri stanno sorgendo non meno di trecentocinquanta nuovi edifici. È il più grande investimento immobiliare del Medio Oriente, già  spesi sette miliardi di dollari. Altrettanti se ne investiranno nei prossimi dodici anni quando anche sulle macerie della città  distrutta sorgerà  il nuovo polo finanziario, ristoranti, un parco, lo yatch club. Basilico non è ancora soddisfatto dell’inquadratura. Sposta, controlla, aspetta. Il suo modo di fotografare ha le lentezze del rallenty, «quello che ti permette di vedere bene un gol». Dice: «Oggi i fotografi in digitale scattano a velocità  supersonica. Io mi godo la pellicola. Impiego anche mezzora prima di uno scatto. Aspetto la luce. Aspetto il vuoto di traffico e passanti che valorizzi il pieno delle architetture. Penso che nella lentezza della visione ci sia la salvezza del vivere e una chiave per capire di più». È difficile che Basilico faccia più di venti scatti in un giorno. È difficile che scelga un punto facile o comodo per inquadrare. Sale sui muretti. Sposta transenne. Si piazza sul tetto più alto o al centro dell’incrocio più trafficato. Confessa: «Mi piace tantissimo rompere i coglioni a tutti: spostatevi, devo fotografare». Ride, ma quel «devo» è autentico. Perché fotografare è la sua missione. Il suo modo di raccontare il mondo dai tempi in cui, appena finita architettura a Milano, appena passato il ’68, appena finiti i primi reportage sull’onda delle foto di Berengo Gardin e di Ugo Mulas, scoprì il lavoro di Bernd e Hilla Becker che nel nord Europa campionavano l’archeologia industriale. Lasciò la Nikon e acquistò la sua prima Hasselblad usata. Cominciò a fotografare le fabbriche di Sesto San Giovanni, le coste industriali della Francia, le ciminiere, come fossero ritratti di persone e non di cose. Dice: «Da allora ho fotografato e raccontato più di sessanta città . Che adesso sono il mio personale mosaico del mondo, la mia città  virtuale, che esiste in ogni dettaglio, senza esistere davvero». Durante la sua prima cena a Beirut, l’altra sera una signora gli ha detto: «Ho visto le sue foto del ’91 e le ho trovate piene di sentimento. Lei conosce l’equilibrio tra la bellezza e il dramma. Ama Beirut e ha scoperto il modo di parlarle». Basilico si è commosso. Disse: «Parlarle e farle raccontare la sua storia era lo scopo di quel viaggio». Ora che è quasi arrivato il momento del primo scatto, qui nella Piazza dei Martiri, racconta che in quei giorni lontani, ogni tanto passava da Mohammed a bere il tè e a riposarsi gli occhi. «Una volta trovo un americano seduto in mezzo a un paio di vecchi che fumano il narghilè. Era Robert Frank, il grande fotografo, il maestro di tutti noi. Girava in calzoncini con una Polaroid semiprofessionale, parlammo per un’ora della città . Scoprii che cercavamo la stessa luce. E ci incantava la stessa solitudine». Anche stavolta trovare le duecentocinquanta inquadrature della nuova Beirut sarà  un viaggio solitario. Una somma di istanti come questo, quando finalmente una nuvola si scioglie, la luce e la prospettiva della piazza finalmente coincidono, e Gabriele Basilico scatta il suo primo click.


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