“Nessuna nostalgia dell’Iri ma ci servono grandi aziende” l’ultima trincea di Tremonti

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Pare dunque questa la ricetta economica che il governo Berlusconi propone al Paese, per rafforzare il suo sistema industriale e resistere alla colonizzazione straniera. Il piano anti-scalate annunciato da Giulio Tremonti ha sollevato un polverone. Il progetto del ministro dell’Economia rievoca un fantasma: quello dell’Iri. Il passaggio dalle antiche dottrine dei monopolisti francesi e degli ordo-liberali tedeschi alle teorie “moderne” delle Partecipazioni Statali all’italiana. Non l’ “economia sociale di mercato”, ma l’ “economia mista” pubblico-privato. Se provi a dirglielo, Tremonti si fa una risata: «Io nostalgico dell’Iri? Non scherziamo, per favore. Qui nessuno si sogna di tornare all’economia della Prima Repubblica…». Reduce dalla trasferta lampo in Cina e poi dal sabato al Workshop Ambrosetti di Cernobbio, il ministro è rimasto colpito dalla lettura dei giornali. E non solo per ciò che accade intorno all’economia. C’è il caos in Parlamento, con la Camera militarizzata dal premier per le leggi sulla giustizia e trasformata in una Curva Sud. C’è l’inferno a Lampedusa e a Manduria, con il fallimento di una politica dell’immigrazione sospesa tra l’intransigenza dei respingimenti leghisti e l’inconsistenza dell'”ospitalità ” berlusconiana. C’è una maggioranza che annaspa, con i Responsabili che alzano il prezzo della stampella prestata al Pdl e con un Carroccio sempre più inquieto per la tenuta della coalizione. C’è un presidente della Repubblica vigile e sempre più preoccupato per il possibile collasso della legislatura. Da tutto questo Tremonti si tiene alla larga: osserva, riflette, ma non commenta. Il quadro è troppo complicato, per avventurarsi in auspici o in presagi. Ma poi c’è la polemica esplosa sul suo piano anti-scalate, che ruota intorno alla creazione di un Fondo pubblico che, con il contributo della Cassa depositi e Prestiti, dovrebbe acquisire quote azionarie nelle imprese private considerate strategiche. Per difenderle dai raid ostili dei gruppi stranieri. Ma forse non solo per quello, vista l’ambiguità  del testo del decreto approvato dalla Gazzetta ufficiale. E su questo il ministro non può tirarsi indietro. «È vero – dice – a Cernobbio ho citato l’Iri e Mediobanca. Ma non ho detto che li rimpiango e voglio tornare a quel modello. Ho fatto un discorso molto più complesso. Oggi la competizione economica è tra continenti. Oggi devi competere con la Cina, oltre che con l’America e l’Europa. Per competere devi farlo con le grandi dimensioni. E allora, se ragioniamo in questi termini, nessuno può negare che l’Iri e Mediobanca, a suo tempo, erano espressione di una grande industria e di una grande finanza. Nel bene o nel male, quelle erano realtà  che competevano su tutti i mercati. Dire questo non significa che voglio rifare l’Iri, che ho nostalgia dei fondi di dotazione e del controllo dello Stato sull’economia…». L’analisi di Tremonti ruota intorno alla storia di questi ultimi vent’anni. «Fino alle privatizzazioni dei primi Anni ‘90, noi avevamo una struttura industriale e finanziaria in grado di competere con i concorrenti stranieri. Pensate a cos’era Telecom prima di diventare Telecom. O pensate a cos’era Mediobanca, riconosciuta da tutti come una delle prime banche d’affari su scala internazionale». Le privatizzazioni, benchè necessarie in quel momento storico, secondo Tremonti hanno depauperato questo patrimonio, perché «fatte male e gestite peggio». Oggi correre ai ripari è quasi impossibile. E non è un caso se le poche prede italiane rimaste sono oggetto della caccia dei colossi di oltrefrontiera. Oggi sono Parmalat e Edison, domani chissà  quali altri “gioielli di famiglia” potrebbero finire all’estero. Tremonti ne è consapevole. «E non penso certo di risolvere il problema tornando allo Stato padrone, ai fondi di dotazione, al controllo della politica sulle aziende…». L’unica cosa che si può fare, secondo il ministro, è salvare il salvabile. Il Fondo strategico creato presso il Tesoro sul modello del “Fsi” francese varato da Sarkozy ai tempi della scalata della Pepsi su Danone, dovrebbe servire proprio a questo. Si tratta di rafforzare le poche grandi industrie rimaste, senza la pretesa di volerle controllare e volerne condizionare le strategie. E si tratta di rimettere in pista la Cassa Depositi e Prestiti, «sul modello di quello che fece la tedesca Kfw ai tempi del Piano Marshall». Il riferimento del ministro è al Kreditanstalt fur Wiederhaufbau, l’Istituto di Credito per la Ricostruzione creato a Berlino nel 1948 per gestire gli aiuti internazionali alla Germania distrutta dalla guerra, e poi per emettere obbligazioni per il finanziamento delle piccole e medie imprese tedesche. Un modello che lo stesso Tremonti ipotizzò già  a fine 2001 per la Infrastrutture Spa, e che oggi rilancia per la Cassa Depositi e Prestiti. Un modello che dovrebbe servire a rafforzare il sistema industriale, mettendo in circolo una parte dei 40 miliardi di euro che rappresentano il forziere della Cassa. Tremonti promette: «Niente Stato padrone, e niente yogurt di Stato». Nessuna «supplenza», ma solo interventi di sostegno al sistema, perché «in un Paese come l’Italia questa è l’unica politica industriale che puoi fare». Ma l’impressione che si rincorrano i buoi ormai già  largamente fuggiti dalla stalla resta fortissima. Anche sulle contromisure adottate per fermare i francesi, ci si chiede se servano a qualcosa. E se la cura non sia in realtà  peggiore della malattia. Tremonti non ne è affatto convinto. «Il nostro pacchetto va benissimo», ripete. Con una convinzione, che non può confessare pubblicamente: il governo italiano replica e porta in Europa le stessissime norme varate a suo tempo dalla Francia. «A questo punto, simul stabunt simul cadent: se bocciano le nostre leggi dovranno bocciare anche le loro. E se è così, per le aziende finirà  pari e patta. Azzeriamo tutto, noi e loro, e amici come prima». Nel frattempo, il ministro continua a coltivare la speranza che, almeno su Parmalat, la “coalizione dei patrioti” italiani a cui sta lavorando Banca Intesa possa finalmente scendere in campo. «Sono fiducioso», dice il ministro. La stessa fiducia che riserva al nostro sistema bancario, alle prese con una gigantesca ripatrimonializzazione, legata alla crisi di questi anni e agli effetti di Basilea 3. «Il nostro sistema bancario è solido, ma dovrà  fare altri aumenti di capitale. E’ un processo inevitabile, ma assolutamente sostenibile: non c’è ragione di preoccuparsi». Banca Intesa è già  all’opera, con un aumento da 5 miliardi. Le altre banche seguiranno, se è vero che questa manovra di adeguamento patrimoniale ai nuovi ratios costerà  circa 43 miliardi di euro, secondo le stime di Bankitalia. Certo, sul credito si addensano le nuove nubi che arrivano dal Portogallo e dall’Irlanda, i cui debiti sovrani sono di nuovo nel mirino della speculazione. E’ una fase critica, che il Tesoro sta monitorando con attenzione. Ma l’Italia è al sicuro, secondo il ministro, anche se deve continuare a tenere salda “la barra del timone”. Resta il problema, drammatico, della scarsa crescita. E resta il problema, tragico, di un governo che ormai sembra incapace di qualunque riforma. La gestione dei conti pubblici è totalmente “conservativa”. E la famosa “scossa all’economia” è puramente figurativa. Tremonti lo sa. Ma con un premier azzoppato, e una maggioranza rabberciata, non può fare di più. Aspetta. Dietro al cespuglio. Esattamente come il suo amico Bossi, e come molti altri che sono in attesa di capire se e quando finirà  il berlusconismo.


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