Quel destino da “straniero”

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Ho lasciato l’Afghanistan a 21 anni, all’epoca dell’occupazione sovietica, rimanendone lontano per diciotto anni. Quando un paese precipita nel terrore e nella guerra, gli individui perdono la chiave della loro identità  e della loro libertà . Sono allora costretti a partire altrove, nella speranza di ritrovare la chiave perduta. Ricerca senza speranza, perché quella chiave l’hanno persa a casa loro. Insomma, l’esilio è la ricerca di un altrove irraggiungibile. Ne nasce un sentimento di frustrazione che ne rende ancora più difficile la condizione. Chi sceglie l’esilio non lo fa certo volontariamente. Lasciare la propria terra, la propria famiglia, la propria lingua, la propria storia è un trauma enorme, soprattutto perché si imbocca la strada dell’incertezza, senza sapere dove si approderà  e se mai un giorno si tornerà  indietro. L’esilio non è un viaggio turistico. È angoscia permanente e paura di morire in luogo diverso dalla propria terra. Anche l’incontro con il paese d’accoglienza è un’esperienza traumatica. Di fronte a un universo sconosciuto, l’esule si sente perso, solo, incompreso, senza punti di riferimento. Esprimersi e farsi capire è quasi impossibile. Per quanto cerchi d’integrarsi, egli resta straniero. Lo sguardo degli altri però lo trasforma, allontanandolo a poco a poco dalla propria identità . Chi arriva da lontano fa di tutto per conformarsi allo sguardo del paese d’accoglienza. Vorrebbe essere colui che l’altro desidera vedere, ma anche rimanere fedele all’identità  originaria, ritrovandosi così in una situazione schizofrenica, tra due mondi, due culture, due lingue. Questo conflitto tra chi si è stati, chi si è e chi si vorrebbe è talvolta molto distruttivo. Se l’esiliato accorda tanta importanza allo sguardo di chi lo accoglie, è perché ha bisogno d’essere riconosciuto e rispettato. Partendo, ha abbandonato uno status sociale, familiare e culturale. Nel paese d’accoglienza si ritrova senza storia e senza identità , costretto ad accettare qualsiasi tipo di condizione materiale. La sua vita passata è come cancellata. Ma spesso incontra solo sospetto e ostilità . Mi sono spesso chiesto come mai gli stranieri facessero tanta paura alla ricca Europa. All’inizio pensavo che fosse la paura della diversità , dell’altro da sé che – con la sua cultura o la sua religione – rimette in discussione le certezze degli europei. Oggi però ho cambiato idea. Non è la differenza a fare paura, ma la somiglianza. Lo straniero non è più percepito come il diverso, ma come colui che vuole assomigliare agli autoctoni, colui che integrandosi potrebbe prenderne il posto, i modi di vita, la ricchezza. Gli europei non hanno paura della differenza, ma solo di perdere ciò che hanno. Questa realtà  ostile, fatta d’esclusione e disprezzo, è molto distante da quella idealizzata dall’esule durante il viaggio. La disillusione è sempre enorme. La nostalgia conduce allora a idealizzare il paese di provenienza. La lontananza e l’impossibilità  di tornare lo rendono, nel ricordo, bellissimo. Quando però l’esule riesce a tornare in patria, si scontra inevitabilmente con la distanza che separa il reale dall’ideale. Insomma, in esilio, si vive sempre tra idealizzazione e disillusione, nei confronti del paese d’accoglienza come nei confronti del paese d’origine. È alla fine, si resta esiliati per sempre. Mai veramente integrati nel paese d’arrivo, ma comunque definitivamente lontani dal paese di partenza. È una condizione dolorosa, che però bisogna cercare di considerare non una lacerazione ma un’opportunità . Il che naturalmente non è sempre facile. (testo raccolto da Fabio Gambaro)


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