Una privatizzazione da oltre 64 miliardi rincari e interessi nel business dell’oro blu

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ROMA – Sull’acqua c’è una partita miliardaria che con la promessa di servizi più efficienti apre la strada a grandi business. La corsa alla spartizione della torta dell’oro blu è già  partita, l’unico ostacolo è il referendum. Il voto del 12-13 giugno è il “fermo” nel meccanismo che dopo la riforma del 2008 viaggia in discesa verso la privatizzazione dei servizi idrici. Si vota per abrogare la legge che affida alle imprese private la gestione delle risorse idriche, entro la fine dell’anno. Vuol dire il mercato delle bollette, già  aumentato del 65% negli ultimi otto anni, e la gestione degli investimenti per ristrutturare la rete degli acquedotti stimata in 64 miliardi (in 30 anni) che saranno in parte finanziati dallo Stato e in parte ancora dalle bollette, destinate quindi a crescere ancora. Un mercato già  ricco, visto che ogni italiano spende in media 301 euro all’anno per l’acqua (erano 182 nel 2002), e che lo sarà  sempre di più. L’Italia è piena d’acqua. La pioggia “regala” tremila metri cubi di acqua pro capite all’anno, 157 miliardi in totale. Non tutta può essere immagazzinata, naturalmente. Ma il fatto che di tutta quell’acqua alla fine ai rubinetti ne arrivino solo 136 metri cubi a testa indica la natura e le dimensioni del problema. È la rete idrica, infatti, la malattia del sistema. Gli acquedotti italiani sono dei veri e propri colabrodi che, secondo dati Censis di fine 2010, perdono per strada 47 litri ogni cento trasportati con un forte danno economico. I picchi di spreco sono altissimi: a Bari per esempio, bisogna mettere in rete 206 litri di acqua per farne uscire 100 dai rubinetti, a Palermo 188. Ci sono anche esempi di virtù, come Milano dove si perdono solo 11 litri ogni cento. Ma siamo nel complesso ben distanti dagli altri paesi europei. In Germania si perdono sette litri ogni cento (e viene considerato uno scandalo, sottolinea il Censis), 13 in media in Europa. Dunque una riforma della rete è indispensabile. Un primo tentativo c’è stato nel ‘96 con la legge Galli che ha tolto la gestione ai Comuni e l’ha affidata ai 92 Ato (Ambiti territoriali ottimali) che dovevano programmare gli interventi per migliorare la rete e poi riaffidare il servizio. Con gli Ato sono arrivate anche tariffe rigide: aumento massimo del 5% annuo delle bollette e un 7% di rendimento garantito al gestore. Ma la riforma non è mai arrivata in porto. Nella stragrande maggioranza dei casi la gestione della rete è tornata in mano ad enti pubblici e solo metà  degli investimenti previsti è andata a buon fine, anche perché lo Stato dal ‘96 ha tagliato da 2.000 a 700 milioni gli stanziamenti per acquedotti, fogne e depuratori. Nel 2008 è arrivata la riforma pro-privati che il referendum vuole abrogare. Il boccone più grande sono quei 64 miliardi di interventi necessari per la ristrutturazione che solo per il 14%, stima il Censis, arriveranno da fondi pubblici. Il resto sarà  pescato dalle bollette, con un aumento nei prossimi dieci anni che le stesse aziende del settore idrico, attraverso il centro studi Utilitatis, stimano in un +18%.


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