Utile Eni in crescita a 2,55 miliardi il caro greggio più forte del blocco libico

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MILANO – Il rincaro del greggio conta più del blocco della Libia, nella prima trimestrale Eni. E spinge l’utile netto a 2,55 miliardi di euro (+14,6% rispetto al marzo 2010) nonostante un sensibile calo della produzione – 1,684 milioni di barili al giorno, meno 8,6% – in gran parte perché gli impianti nel paese africano in guerra sono in stand-by dal 22 febbraio. Il titolo ha guadagnato l’1,83% a 17,79 euro, in linea con la marcia del settore. Investitori e analisti petroliferi hanno trovato i numeri, di gestione e di profitto, un po’ sopra le attese. Più “neutri”, per il mercato, la riduzione dell’indebitamento, sceso a 24,95 miliardi – in gran parte per una cessione di crediti commerciali da 932 milioni – e il calo dell’aliquota fiscale dal 53 al 50,5%, che aiuta l’ultima riga dei conti ma deriva dallo stop degli affari a Tripoli, dove le tasse sono alte. «Nel primo trimestre, segnato dagli eventi libici, Eni ha conseguito risultati eccellenti sostenuti dallo scenario petrolifero», ha detto l’amministratore delegato Paolo Scaroni, da poco rinnovato per un triennio. Il manager ha speso un cauto ottimismo sul prosieguo: «Nonostante le incertezze sui tempi di ripresa delle nostre attività  in Libia, le prospettive di redditività  e di crescita di Eni rimangono positive grazie alla solidità  patrimoniale, la qualità  del portafoglio asset e i progetti di sviluppo». Non è difficile vedere rosa, per i petrolieri. Nei tre mesi in esame il prezzo medio del petrolio è stato 105 dollari al barile, +37,7% rispetto ai 72,24 dollari di un anno prima. Ciò spiega in gran parte il risultato della divisione Estrazione e produzione: un utile netto rettificato di 1.833 milioni (+47,2%). L’altra “zampa” dell’Eni, il gas, zoppica un po’, anche se le vendite sono aumentate del 6%. L’utile netto rettificato della divisione Gas scende del 20% a 763 milioni. Domanda e prezzi stanno crescendo, resta il problema degli scarsi ritiri del gas venduto via tubo – ha prezzi molto superiori al mercato spot – ma la situazione potrebbe migliorare, per i ripensamenti sull’energia nucleare e per la rinegoziazione in corso dei contratti a lungo termine con Russia e Algeria. In rosso, invece, la divisione Raffinazione e marketing: i costi di lavorazione calano del 27% e la domanda ristagna, quindi il trimestre chiude con una perdita di 80 milioni. Un’ultima voce importante, ma che non ha entusiasmato gli analisti, è il flusso di cassa generato nel trimestre, in calo dell’8,1% a 4,19 miliardi. Livello che permette – pur col greggio così caro – di spesare cedole e investimenti tecnici (2,87 miliardi), non di accumulare nuove risorse. Inserita nello stesso scenario, la britannica Bp ha fornito risultati simili, con un forte aumento dell’utile netto a marzo, +17% a 7,12 miliardi di dollari (4,9 miliardi di euro), dopo ricavi saliti del 18,7% a 88,3 miliardi. Il risultato corrente di Bp tuttavia è sceso del 2% a 5,48 miliardi di dollari, anche per altri 348 milioni di oneri relativi alla catastrofe di un anno fa nel Golfo del Messico, costata 41,3 miliardi alla major. Il cda Eni, ieri mattina, ha poi deliberato l’emissione di un bond da 2 miliardi, da collocare in un anno. Entro settimane l’azienda dovrebbe cedere, spinta dall’Antitrust, la quota nel Tag, gasdotto che porta alla frontiera austriaca il metano siberiano. A comprare sarà  la Cassa Depositi Prestiti, parte correlata e prima azionista dell’Eni.


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