Adora il tuo nemico l’ambiguo legame con il carnefice

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Hans Keilson, ebreo tedesco nato a Berlino nel 1909, è un signore ultracentenario che vive in Olanda dai lontani anni Trenta. La foto che compare sulla bandella del libro, edito in Italia a più di cinquant’anni dalla sua pubblicazione, ce lo restituisce con un sorriso saggio e rasserenante, malgrado la sua biografia rifletta puntualmente l’immane tragedia del popolo ebraico. Scappato in Olanda nel 1936, Keilson entrerà  poi nelle fila della resistenza olandese, offrendo aiuto, in qualità  di medico, ai bambini traumatizzati dalla separazione forzata dai genitori. Proprio lui, che ormai adulto, perderà  a sua volta padre e madre nel campo di Auschwitz.

La sua singolarissima vicenda letteraria – un vero e proprio viaggio sulle montagne russe – la illustra lui stesso in un’intervista al Guardian di qualche mese fa. Keilson esordisce a soli ventitré anni: nel 1934 pubblica per Fischer La vita continua, l’ultimo romanzo di uno scrittore ebreo a uscire in Germania prima che si scateni la furia antisemita dei nazisti. Poi un silenzio lungo trent’anni, e i riflettori internazionali si accendono di nuovo sulla sua figura nel 1962, quando La morte dell’avversario esce negli Stati Uniti ed entra nella top-ten della critica, al fianco dei coevi titoli di Borges, Nabokov, Faulkner. Ma anche stavolta il successo dura una sola stagione e la stella di Keilson scompare ancora fino all’anno passato, con la pubblicazione, sempre in America, di Comedy in a Minor Key, che viene accolto dal New York Times con parole perentorie: quel libro è un capolavoro e il suo autore è un genio. Anche se il primo a frenare gli entusiasmi è proprio Keilson, che all’intervistatore del Guardian, Philip Oltermann, risponde: «Non le pare un po’ esagerato? Un genio io? Non sono neanche uno scrittore in senso proprio».
Eh no, uno scrittore, un vero scrittore, Hans lo è di sicuro.
Non foss’altro perché La morte dell’avversario passa l’esame del critico più implacabile: il tempo. A oltre cinquant’anni dalla stesura, questo sconcertante romanzo mantiene inalterato il suo vigore. Sia in ordine alla profondità  abissale del tema affrontato (il legame tra vittima e persecutore in epoca nazista), sia per la capacità  di sciogliere tale vertiginosa questione in una narrazione piena di immagini vivide e potenti, che colpiscono la mente e il cuore del lettore.
Una, in particolare, si impone sulle altre. Si narra a un certo punto la lontana storia dell’innamoramento del Kaiser per certi alci che ha visto in Russia dal cugino, lo zar, il quale gliene regala subito un branco, trasportato in un habitat adeguato: foreste e steppa, tra il mar Baltico e la laguna. Ma dopo un po’ gli alci cominciano a morire, in modo assai misterioso. Finché un guardiacaccia inviato appositamente dalla Russia scopre la ragione della moria: il clima è perfetto, la zona prescelta pure, ma l’alce sente la mancanza del lupo, che paradossalmente lo tiene in vita con la sua costante minaccia. E’ esattamente attorno a questa perversa relazione che ruoterà  il romanzo, a partire dal giorno in cui il protagonista, ancora bambino, sente i genitori parlare di un misterioso signor B., il cui prossimo avvento al potere comporterà  per tutti una sicura catastrofe.
Il bambino comincia a fantasticare su quella figura: ne scruta con attenzione il volto sui giornali, rimane ammaliato dalla sua voce nei comizi. E, sempre fantasticando, si convince che lui e il suo nemico hanno assoluto bisogno l’uno dell’altro. Vivono l’uno dell’altro, attraverso continue proiezioni reciproche. Ma se ci si dimostra capaci di essere nemici a se stessi – insiste il protagonista, ormai adulto – anche l’avversario sarà  indotto a fare altrettanto. E in tal modo scoprirà  il vuoto della sua identità , la follia delle sue azioni. Così la «vittima sacrificale» rovescia la propria impotenza in un malcelato senso di superiorità , presumendo che la sua stessa presenza possa costringere il nemico ad arrestarsi nella sua rovinosa strada di morte: perché nell’odio è comunque nascosta una «goccia d’amore».
Inutile aggiungere che i primi a diffidare di questo «fratello debole», dei suoi sofismi e della sua «infantile stoltezza», sono proprio i membri della sua stessa comunità , i quali, pur riconoscendogli di non essere un transfuga o un traditore, hanno buon gioco nel dimostrare l’inanità  di una posizione che si fa sempre più assurda, via via che si dispiega la scientifica efferatezza del signor B.
Il protagonista del racconto è stretto in una impasse irresolubile. Ora capisce appieno la “parabola” degli alci.
Schiacciato dalla paura, anche lui ha vissuto a lungo come un alce, nell’allucinata necessità  di un lupo minaccioso e persecutore. Né è mai riuscito a trasformarsi in lupo, avendo cercato disperatamente di salvaguardare quella «goccia d’amore» senza la quale il mondo è destinato a perpetuare la propria rovina. Poi, nell’estremo tentativo di difendere la sua tesi, aggiunge: «Anche i lupi sono mortali. Soggiacciono al potere di Uno che è più forte, un potere più terribile di quello che opprime gli alci». È Dio stesso, a questo punto, a venire chiamato in causa nel corso di un ultimo, drammatico incontro con l’ombra del padre, che avviandosi alla morte con il proprio zaino carico di dolore, non può certo seguire i vaneggiamenti del figlio. Quella fantomatica «goccia d’amore», per lui, non ha alcun significato.

 


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