Con Draghi vince anche l’Italia che funziona

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Che cosa ci dice questa nomina sullo stato di affidabilità  del nostro Paese? La prima risposta è che Mario Draghi è innanzitutto Mario Draghi. Nel senso che è quel tipo di italiano che nella sua vita si è conformato al celebre invito kennediano: non domandarti che cosa il tuo Paese può fare per te, ma che cosa tu puoi fare per il tuo Paese. È stato scelto perché era semplicemente il migliore. Ma questo vuol dire che essere il migliore è un’ambizione che gli italiani possono coltivare: soprattutto questa generazione di italiani, che hanno l’opportunità  di vivere e studiare da europei, e se hanno voglia e coraggio non sono condannati al provincialismo linguistico e culturale. La seconda risposta, però, è che anche il migliore banchiere centrale in circolazione in Europa ha rischiato di non farcela proprio perché era italiano. Sarebbe stata l’unica buona ragione per dirgli di no, una volta che si era metaforicamente suicidato il candidato tedesco. E infatti la Merkel ha titubato solo perché era italiano. La Bild ha titolato «Mamma mia» perché era italiano. Soltanto perché era italiano preoccupava il tandem con un vicepresidente portoghese. Italia uguale debito pubblico. Italia uguale assuefazione all’inflazione. Questo peso Draghi se l’è portato addosso e non è finita qui. Di trattamenti «all’italiana» ne riceverà  ancora tanti. Ma, paradossalmente, è stata propria questa consapevolezza, il fatto cioè che Draghi poteva essere scartato in quanto italiano, a provocare una reazione una volta tanto efficace del nostro sistema-Paese. Berlusconi non poteva permettersi uno smacco così, che avrebbe dato ragione a chi l’accusa di essere causa della nostra debolezza all’estero, ed ha agito. Napolitano ha usato la sua influenza internazionale. Per quanto nei corridoi della politica ci sia sempre in azione qualche scorpione che come nella favola punge la rana a metà  del guado senza altra ragione che rispondere alla sua natura di scorpione, la traversata del fiume è stata portata a buon fine dalla nostra diplomazia e il premier ha seguito i consigli giusti. Sarebbe stato infatti difficile lanciare un italiano per uno scranno così alto in Europa mentre si alzavano barriere nazionaliste contro il capitale francese, o mentre si contrabbandavano immigrati clandestini oltre frontiera, o mentre ci si asteneva dalla battaglia in Libia. Bisogna ammettere che i tanto criticati «cedimenti» di Berlusconi nel vertice con Sarkozy sono stati sforzi — premiati con Draghi— di mantenere l’Italia nell’unico habitat dove può sperare di contare qualcosa, quello europeo. Una seconda lezione va però tratta da questa vicenda, ed è che l’Italia, entrata nell’euro con il terzo debito pubblico del mondo e con l’allora governatore Fazio contrario, ha compiuto in tutti questi anni un faticoso cammino di responsabilità  dei conti pubblici che certamente non la mette fuori pericolo, ma altrettanto certamente la mette fuori dal club dei Paesi che rappresentano un pericolo per l’euro. Si è forgiata negli anni, quasi per una fortunata eterogenesi dei fini, una filiera bipartisan di personalità , nei governi e tra i civil servants, che hanno tenuto la barra dritta anche mentre sul Titanic i politici ballavano la danza della spesa pubblica. Da Ciampi a Tremonti, passando per Prodi e Padoa Schioppa, abbiamo ri-costruito una attendibilità  senza la quale sarebbe stato inimmaginabile un italiano alla guida della Bce. Questo successo non è dunque solo personale, e ci dice che, tutto sommato, il quasi ventennio di Seconda Repubblica non è proprio tutto da buttare. In un Paese così naturalmente vizioso si è come diffuso un anticorpo, una schiera di guardiani della virtù di bilancio magari poco profeti in patria ma decisivi per salvarne la credibilità  all’estero. Speriamo che la scelta del nuovo governatore confermi questo abito europeo.


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